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494 ATTO TERZO


che ha vinto senza parlare. Soffrano i due rivali la loro perdita sfortunata, ha combattuto amore, e la vittoria è vostra. (a don Fausto)

Fausto. Signora, voi vi prendete giuoco di me. (a donna Placida)

Luigia. (Ah, mi palpita il cuore). (da sè, mortificandosi)

Placida. Mirate una pruova di quel ch’io dico nell’arrossire di mia germana. (a don Fausto, accennando donna Luigia)

Fausto. Ah, se mai fosse vero che ella ardesse per me! arrossirei io medesimo molto più di donna Luigia, scorgendomi indegno delle sue fiamme, e incapace di renderle una amorosa mercede.

Luigia. (Dunque è vano ch’io mi lusinghi). (da sè)

Placida. Perchè con essa mostrarvi ingrato?

Fausto. Perchè ad un amore più tenero mi vuol legato la mia costanza. Il cuore serba gli affetti suoi, serba gelosamente gl’impegni, e ognuno potria dubitarne, fuori di donna Placida.

Luigia. (Si amano, a quel che si sente. Non m’ingannò il mio pensiero). (da sè)

Placida. E pure ella di voi si lusinga. (a don Fausto)

Luigia. No signora, non è vero. Non ho il talento, non ho lo spirito di donna Placida, ma semplice quale io sono, saprò dire il mio sentimento. Don Fausto, veramente vi stimo e vi rispetto sopra d’ogni altro, ma non ho avuto nè tanto tempo, nè tanta facilità di trattarvi, per poter dire di essere di voi accesa. Posso soffrire, senza un gran rammarico, di perdere quella speranza che aveva sopra di voi concepita. Intendo gli accenti vostri, conosco il linguaggio dei vostri sguardi, capisco l’inclinazione del vostro amore; non posso dire di cedere alla germana un cuore che non è mio; ma deggio bensì lasciarla nel pacifico suo possesso, e potrò dirvi costantemente, che altro sposo per me non desidero, che quello che mi sarà destinato. (parte)