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502 ATTO TERZO


Placida. Come, signore? Mi avete voi innamorato?

Ferramondo. Tempo non ebbi a farlo, ma spero di potervi giungere un giorno.

Placida. Non vi rammentate ch’io dissi, che chi fosse stato il primo ad innamorarmi, sarebbe stato da me prescelto? Un altro ebbe la forza, ebbe il merito di prevenirmi. M’innamorai, son vinta, e sarà don Fausto il mio sposo.

Ferramondo. Come! A me un simil torto?

Placida. Di qual torto vi lamentate? Che colpa hanno i miei occhi, se non giungeste a piacermi? Dovea aspettare più a lungo per compiacervi? Vi è pur noto, che le fiamme si accendono in un momento; lo sa chi mi possiede, lo sa quanto ha costato alla sua sofferenza l’innamorarmi, e quel che non poterono lunghi sospiri, e servitù continuata, giunse, non saprei come, ad ottenere un sol punto. Se siete voi cavaliere, se siete uomo ragionevole e umano, perdonar dovete l’involontaria offesa, ed appagandovi della verità che io vi dico, dovrete onorare don Fausto del vostro perdono e della vostra amicizia.

Ferramondo. Non so che dire, conosco che mi vien fatto un torto, ma da una donna di spirito mi convien tollerarlo.

Placida. (Non è poco, ch’egli abbia sì facilmente calmato lo sdegno). (da sè)

Luigia. (Sarà contenta col suo caro avvocato). (da sè)

Berto. Ora tutte due siete spose, ed io povero disgraziato resterò solo in casa, abbandonato da tutti?

Placida. Signore, se lo aggradite, noi resteremo con voi; don Fausto avrà piacere della vostra amabile compagnia.

Fausto. Voi vi potrete di me valere per amico, per servitore, e per avvocato.

Berto. Bene; restate meco, che io son contento. A donna Luigia darò la dote che le conviene, e voi, se restate con me, vi fo donna, e madonna, e padrona di tutto il mio.