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LA DONNA FORTE 289
Marchesa.   In avvenire,

Quando meco parlate, frenate il vostro ardire.
Son femmina sincera; quello che ho in cuore, io dico.
Angiola. Eh, ne son persuasa. (No, non le credo un fico). (parte)

SCENA VI.

La Marchesa sola.

Che tracotanza è questa? Fino sugli occhi miei,

GÌ’insulti, le rampogne, ho da soffrir da lei?
Dunque, per soddisfarla, dovrei svelare ad essa
Quel che vorrei, potendo, nascondere a me stessa?
No, non saprallo ad onta del suo parlare ardito.
Ah, pur troppo mi duole che il sappia mio marito.
Vorrei da me medesima mortificar l’indegno,
Senza veder lo sposo con esso in un impegno.
Ma se con lui favella la garrula germana,
Se lo mette in sospetto, la mia prudenza è vana.
Deggio per mia salvezza, deggio per l’onor mio,
Palesare un arcano che ho di celar desio.
Rimproveri non temo, se faccio il mio dovere.
Nasca quel che sa nascere, l’onor dee prevalere.

SCENA VII.

Don Fernando e la suddetta, poi Prosdocimo.

Fernando. Perdonate, Marchesa...

Marchesa.   Qual ardire è cotesto?
Fernando. Scusatemi, vi prego; non vi sarò molesto.
Marchesa. Venir senza imbasciata?
Fernando.   A ragion vi dolete.
Non ritrovai nessuno.
Marchesa.   Servitori, ove siete? (chiamando)
Fernando. No, per portar le sedie d’uopo non vi è di loro.
Farò io. (si frappone, perchè non si accosti alla porta)
Marchesa.   Giusti numi, salvate il mio decoro.