Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1913, XVI.djvu/439

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NOTA STORICA

Recarsi alla Giudecca per «vivere e morirvi» fu malinconico desiderio di poeti romantici, ispirato da chi sa quali rimpianti (Musset, A Saint-Blaise, à la Zuecca). Ma in pieno settecento i gaudenti veneziani cercavano colà solo i piaceri della tavola e della compagnia, meritandosi così dall’arguta bonomia del Goldoni l’appellativo di «morbinosi».

Già nel Servitore di due Padroni Pantalone si commove, si esalta al ricordo di liete ore godute anche alla Giudecca «con certi galantomini, de quei della bona stampa». «Se la savesse - racconta a Beatrice - che compagnia, che xe quella! Se la savesse che cuori tanto fatti! Che sincerità! Che schiettezza! Che belle conversazion che s’ha fatto... Sette o otto galantomeni che no ghe xe i so compagni a sto mondo». E a Beatrice che gli chiede: «Avete dunque goduto molto con questi?» - Pantalone risponde: «L’è che spero de goder ancora». - Per bocca del vecchio mercante si sente parlare l’autore. Vi torna infatti altre volte e un giorno i «sette o otto galantomeni» diventano cento e più e dalla visione del lieto festino, descritto con tanto calda simpatia nella dedicatoria, nella premessa e nelle Memorie, nasce una commedia.

La quale del lieto simposio sembra però un riflesso alquanto pallido. Vi si sente poco, troppo poco, del simpatico venezianissimo «morbin», signore assoluto alla tavola di quei centoventi bontemponi. Il banchetto stesso che doveva occupare un atto almeno dei cinque, poichè era ed è il pernio, intorno a cui il lavoro s’aggira, non ha per sè che due brevi scene; lo spettatore assiste solo al levar delle mense.

La commedia, fuori del suo vero ambiente, è tutta in pochi episodi. Certo il Goldoni non s’illuse di darle vita col vieto e abusato ripiego della curiosità e gelosia femminile o con la scialba figira di Lelio Toscano, personaggio già apparso in assai più felice rilievo nel Campiello e nelle Morbinose; nè, in linea artistica, si può dire concezione indovinata Brigida contatrice, intorno alla quale si svolge il più dell’azione. Le sue incresciose peripezie s’impongono all’attenzione di chi indaga il costume: meno a quella dell’uditorio. La grazia del dialetto contrabbilancia sì, non poco, la mancanza d’una vera favola, avviva il dialogo spesso arido e stanco e crea alcune ottime scene, come, per concitazione e verità un piccolo capolavoro, quella dello schiaffo (III, 3).

Nel 1763 l’autore confessa in tutta sincerità a chi legge che la commedia é andata male e mostra d’attribuire le ragioni dell’insuccesso all’insufficienza dell’apparato scenico. Ventiquattr’anni dopo invece, stando alle Memorie, la buona accoglienza fatta a questi Morbinosi lo ripagano del fiasco della Donna di governo.

«L’argomento di questo lavoro non era che un festino; ma bisognava allietarlo con degli aneddoti interessanti e de’ caratteri comici. Ne trovai nella nostra compagnia, e, senza offendere nessuno, cercai di giovarmene. La com-