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150 ATTO TERZO


amo? Ah sì, in grazia di questi teneri affetti, scemisi a me il cordoglio, ed a lei la vergogna. Le si risparmi la solennità del ripudio. Sappia il di lei padre le mie intenzioni. Non lascierò di procurare a questo buon vecchio la sua libertà, e s’ella si accomoda a non iscostarsi dal suo genitore, sarò pronto anch’io a sagrificare la pace, l’amore, e la successione della famiglia a quell’astro che mi ha seco lei sì barbaramente legato. Ehi1.

Isacco. Signore.

Bonfil. Il conte d’Auspingh.

Isacco. Sì signore. (parte)

SCENA IL

Milord Bonfil, poi Miledi Daure.

Bonfil. Preveggo qual doloroso colpo sarà al cuore di questo padre onorato l’infelice destino della figliuola. Per questo appunto vuole l’umanità, ch’io cerchi di minorargli la pena. Quel che potrebbe nuocergli più di tutto, sarebbe la pubblicità. A questa procurerò rimediare.

Miledi. Milord, mi consolo di cuore vedervi uscito felicemente da quel pericolo in cui vi trovaste.

Bonfil. Di qual pericolo favellate?

Miledi. Parlo di quello della pistola.

Bonfil. Io non capisco quello che vi diciate.

Miledi. Non occorre negarlo. So tutto.

Bonfil. Voi non dovete saperlo.

Miledi. Ma se lo so.

Bonfil. Se lo sapete, dovete persuadervi di non saperlo.

Miledi. Sarà difficile.

Bonfil. Dov’è il Cavaliere vostro nipote?

  1. Così segue nella cit. ed.: «Falloppa. Signore. Bonfil. Chiamami il Conte d’Auspingh. F. Compatisca. Dove sta di casa? B. Sciocco! Non lo sai, che abita in questo tetto? F. Io non lo conosco. B. Che sofferenza! Non conosci il padre di Pamela? F. Si chiama il Conte dello spino? B. con sdegno. Si chiama il Conte d’Auspingh. F. Io non dico, che così non sia. B. Digli che favorisca di venir qui. F. Sì signore, parte».