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della prima Pamela, dovette cavar tutta l’invenzione dalia propria testa, nè di ciò gli faremo alcun merito. Dell’avvocato Goldoni è anche l’abitudine di rizzare il tribunale in mezzo al palcoscenico (benchè non mancassero esempi classici) e di commuovere gli uditori con le orazioni e le perorazioni.

Nè ci verrà in mente di credere che il commediografo nostro avesse letto l’Otello, perchè il pazzo Ernold suscita nel petto di Bonfil il dubbio della gelosia con queste parole: «Milord Artur è filosofo; ma non lo crederei nemico dell’umanità. Se avessi moglie, non lo lascierei star seco da solo a sola» (I, 5). Dubbio che la maligna Miledi acuisce, ribadendo: «Eh, in questa sorte di cose gl’amici possono molto più dei nemici» e, sul conto di Pamela, insinuando: «Se non la terrete in dovere, è donna anch’ella come le altre» (I, 8). Pur troppo il paragone di Shakespeare schiaccia il misero tentativo dell’autore nostro.

Non vi è bisogno di presentare ai lettori il signor di Voltaire, a cui è dedicata la Pamela maritata. Che il Voltaire conoscesse il teatro di C. Goldoni prima di scrivere Le café ou l’Écossaise, non ci consta; ma nella pref. di questa commedia, stampata l’anno 1760, l’anonimo autore lodava pubblicamente «la naiveté et la vérité de l’estimable Goldoni», benchè sembrasse desiderare un po’ più «d’intrigue, de force et d’intérét». In questo modo il patriarca di Ferney ripagava qualche debituccio contratto col commediografo veneziano (P. Toldo, Attinenze fra il teatro comico di V. e quello del G., in G. Stor. Lett. It. XXXI. 1898, f. 2-3; A. Neri, Una fonte dell’Écossaise di V., in Rass. bib. leti. it. VII, 1899, n. 2). E già fin dal febbraio di quell’anno giustamente scriveva all’Albergati: «J’aime sa personne quand je lis ses comédies; c’est vraiment un bon homme, un bon caractere, tout naturel, toute vérité»; e poco dopo gli mandava stampato il notissimo epigramma, En tout pays on se piqué etc, che il giovane senatore bolognese s’affrettava a rimettere al Goldoni, e che il Goldoni, pieno di legittima compiacenza, faceva stampare nella Gazzetta Veneta (n. 43, 9 luglio), compilata allora da Gasparo Gozzi. Il resto ci vien raccontato dallo stesso commediografo, del quale troveremo più avanti nell’epistolario qualche lettera al Voltaire, da Parigi, e nelle Memorie il racconto della visita fattagli nel 1778 (E. Maddalena, Bricciche goldoniane: La visita a Volt., Pitigliano 1898; ed È. Bouvy, Volt. et l’Italie, Paris 1898, pp. 2 19-229). Che il dittatore della repubblica letteraria nel Settecento conoscesse a fondo la lingua italiana, si può mettere in dubbio, che si prendesse soverchie licenze nello scrivere il dialetto veneziano, è vero, ma bisogna confessare ch’egli, a differenza dei suoi concittadini, aveva gettato uno sguardo acuto nel teatro goldoniano, e capì l’importanza della riforma teatrale, e tese generosamente la mano ormai senile, ma sempre più gloriosa, al dottore veneziano di fama ancora oscura oltre l’Alpi, benchè già da molti anni, specialmente nei paesi tedeschi, si applaudissero le sue commedie. Si ricordi come anche nel 1763 seguisse da lungi con occhio benevolo i tentativi del Goldoni sul Teatro Italiano a Parigi e lo credesse venuto a portare in Francia «la véritable comédie» (lett. al conte D’Argentai, 13 febbr.) E ai 1 maggio del medesimo anno scriveva al nostro Veneziano: «Je viens de relire l’Avventuriere onorato, il Cavaliere di buon gusto et la Locandiera. Tout cela est d’un goùt entiérement nouveau; et c’est, à mon sens, un trés grand mérite dans ce siècle-ci.