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Conte. Inutile è il parlarne.

Carluccio.   Che me ne diano ottanta.
Conte. Non vi è caso.
Carluccio.   Cospetto! anderò pei sessanta;
Ma voglio una scrittura con arte simulata
Di trecento zecchini per onor mio firmata.
Conte. Sì, ma accordar dovete siavi un zecchin levato,
Ogni volta che dite di essere raffreddato.
Carluccio. Vo’ cantar quando voglio.
Conte.   Non si fa più il contratto.
Carluccio. Via, per lei, signor Conte, canterò ad ogni patto.
Conte. Bravo! il vostro onorario sarà sicuro e pronto.
Carluccio. Non si potrebbe avere qualche denaro a conto?
Conte. Scriverò all’impresario.
Carluccio.   Ella non ha quattrini?
Conte. Non son io quel che paga.
Carluccio.   Mi presti due zecchini.
Conte. Vo da una virtuosa, e poi ne parleremo.
Carluccio. Se mi fa questa grazia...
Conte.   Sì, sì, ci rivedremo.
(entra nella locanda)
Carluccio. Che caro signor Conte! Teme ch’io non li renda?
Due miseri zecchini sono una gran faccenda?
È una somma leggiera, ch’io non stimo niente,
E quando ne guadagno, li spendo allegramente.
È vero che ho dei debiti, ma un dì li pagherò:
Col tempo e colla paglia anch’io maturerò.
Se vado in Portogallo, se vado in Alemagna,
Porterò via un baule di dobloni di Spagna;
E tornerò in Italia a fabricar palazzi,
E porterò alle scarpe le fibbie coi topazzi,
E cambierò ogni giorno un abito guarnito,
Pieno di tabacchiere, e di brillanti in dito.