Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1913, XVII.djvu/296

Da Wikisource.
284

SCENA IV.

Camera di locanda.

Lucrezia e Cavolo.

Lucrezia. In quest’appartamento non voglio intisichire:

Cambiatemi le stanze, o me ne voglio ire.
Cavolo. Ho preteso di darle le camere migliori;
Le ho sempre riserbate per dame e per signori.
Son fornite, mi pare, con molta proprietà;
S’ella non è contenta, di meglio non avrà.
Lucrezia. Le camere son buone, di ciò non dico nulla;
Ma codeste finestre non vagliono una frulla.
Se un micolin m’affaccio, mi sento venir male;
Mi stucca e mi ristucca la vista del canale.
Cavolo. Mi stucca e mi ristucca, in grazia, che vuol dire?
Lucrezia. Vol dir, che dalla noia mi sento riffinire,
E che s’io ci dovessi star da mattina a sera,
Parrebbemi d’avere d’intorno la versiera.
Cavolo. Quel ch’ella dir intende, per discrezion capisco;
Ma se mi dà licenza, signora, io l’avvertisco
Meco non adoprare le voci fiorentine;
Le intendo come intendo le greche e le latine.
Lucrezia. Voi siete, a quel ch’io sento, un camerier baggiano;
E chi è che non capisca il favellar toscano?
Cavolo. Il toscan si capisce. Parlo toscano anch’io,
Come a parlare appresi facendo il mestier mio.
Ma vi son certi termini usati dai Toscani,
Di cui sono all’oscuro moltissimi Italiani.
Per esempio a Firenze la robba ch’è comprata
Pel vitto o pel vestito, si dice la derrata.
Noi diciam catenaccio, voi dite chiavistello;
Voi dite a un omo sciocco, baggiano, ovver baccello;
Da noi quel che voi dite, non si capisce appieno,
E quelli che v’imitano, s’intendono ancor meno.