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76 ATTO TERZO

Eugenia. Andate, signor protettore. (come sopra)

Ridolfo. Protettore di chi?

Eugenia. Della parentela,

Ridolfo. Vi compatisco, perchè siete una donna. (parte)

SCENA VIII.

Eugenia sola.

Sia ringraziato il cielo, sarà finita. È meglio così. Già se Fulgenzio fosse mio sposo, non avrei un’ora di bene; e s’ei lo facesse, lo farebbe per forza. Si vede chiaro, che non mi ama. Ed io sarei stolida, se volessi amarlo. Quest’angustia di cuore, che ora mi sento, non è amore, è sdegno. Sdegno non già perchè il perfido mi abbandoni, ma ira contro me stessa per avergli creduto. E sarò così sciocca di andarmi a chiudere in un ritiro per la perdita di un ingrato? Darò a lui questa soddisfazione, acciò se ne vanti, e vada raccontando agli amici la mia disperazione, come un trionfo della sua perfidia? No, non fia vero; vada egli, ed ammiri la mia costanza. Ma quale costanza, se mi sento morire?

SCENA IX.

Fabrizio, Roberto e detta.

Fabrizio. Cospetto di bacco! chi sono io in questa casa? Sono il padrone, o sono qualche stivale?

Eugenia. Con chi l’avete, signore zio?

Fabrizio. L’ho con voi, sciocca.

Eugenia. Con me?

Fabrizio. Sì, con voi. Io sono il padrone; e non ci sono in questa casa altri padroni che io; e una nipote, che dipende da me, non dee far all’amore, senza che io lo sappia; e molto meno parlare di maritarsi. Insolente.

Eugenia. (Or ora mi sente, con queste sue baggianate).