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però assai ben animate. Il dormite, signor Guglielmo?, ripetuto tre volte da Vittoria al fidanzato che ha occhi solo per chi ormai, date le circostanze, non dovrebbe più vedere, è fra gli spunti comici più geniali del Goldoni.

Ma il pregio vero e grande del Ritorno d. v. è ne’ due primi atti, che contengono scene stupende: quali le due d’introduzione, quella tra Vittoria e Ferdinando, l’episodio di Bernardino e i dialoghi di Giacinta e Brigida, personaggio questo ch’entra in gara vittoriosa con le più birichine e più petulanti servette goldoniane. Specie nella terza scena tra padrona e cameriera (II, 10) con quanto irresistibile effetto comico — comicità della più spontanea e più serena — scappa fuori l’amore sempre negato e sempre presente! E com’è fine e sentito il lungo monologo (sciupato solo dalla chiusa rettorica), dove Giacinta legge la lettera di Guglielmo!.... Peccato che la fanciulla, ne’ vani suoi conati di togliersi alla fatale passione, ricorra persino a un libro, e con iscarso utile suo e grave tedio dello spettatore esponga le massime ivi lette. Anni innanzi, con assai maggior opportunità, e con parole belle di verità e di garbo, aveva dette le stesse cose a un suo cliente il medico olandese. (Riaccosta i due passi goldoniani il Chatfield-Taylor a pag. 450 del suo volume). Ma guai se alle femminette goldoniane salta in mente di metterci a parte di letture loro mal digerite!

Anche il carattere di Leonardo si delinea in questa terza parte con tocchi più sicuri. Meno incresciosa riesce ora la figura per quel tanto di sentimento che l’egoismo avea troppo nascosto nelle due prime. Ormai si crede un po’ anche noi all’affetto suo per Giacinta.

Accompagnano i critici ancora, con simpatico animo, le peripezie amorose della nostra eroina. «Il combattimento degli affetti — osserva l’Albertazzi — già così vivo nelle prime due parti, per arte spontanea diviene potentemente drammatico nella terza; la tenerezza, la disperazione, l’eroismo, senza sforzo di psicologi, atteggiano tragicamente la donna innamorata quando, alla fine, la volontà di lei supera tutto e il dovere la conduce vittoriosa, non vinta, al sacrificio. E col sacrificio, non con il solito lieto matrimonio, finisce la trilogia. Se la leggessero coloro che incolpano il Goldoni di osservazione superficiale -!» (Pel 2.o ceni. d. nascita di C. G. il Teatro Manzoni, Milano, 1907, p. 32).

Non sembra a Maria Merlato che, pur risolto il combattimento degli affetti a gloria della più strenua virtù, nell’animo di Giacinta sia cessato «ogni spasimo». Le è caro imaginarsi quale potrà essere la vita della giovine donna. «Vediamo l’avvenire di Giacinta, lontana dalla sua città natale, sola, con un marito che non ama; la vediamo fantasticare quand’egli è assente, sulla sua vita spezzata, sulla sua felicità distrutta. A qualche frase del marito che le parla della sorella lontana e del cognato, Giacinta trema e impallidisce, e si abbandona ancora al suo sogno inattuabile, e forse impreca in cuor suo a quelle circostanze che per anime deboli costituiscono il destino.... Poteva essere convinto il Goldoni che questa fragile creatura fosse capace di compiere così, senza rimpianto, il sacrifizio di ciò che può essere più forte della vita?». (Mariti e cavalier serventi nelle commedie del G., Firenze, 1906, p. 19).

Negli apprezzamenti però dati dalla critica a questo lavoro, chi prende il sopravvento su Giacinta è quello zio da noi conosciuto per sentita dire sin dalle Smanie. Ce lo presentò Leonardo. («Quell’avaraccio di mio zio po-