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arguto ch’egli parla e che di tutti i dialetti italiani s’avvicina di più, dopo il toscano, al linguaggio comune; quando si è veduto coi propri occhi i costumi ch’egli ritrae, di poco alterati dal tempo, si deve confessare ch’è impossibile riuscire più veri; com’è impossibile giudicarlo equamente senza conoscere e gustare le sue commedie puramente veneziane, tra le quali il Todero (C. G. Le Théâtre ecc., p. 148). Il Dejob, quale modello di fine prudenza femminile nel trattare di matrimoni, riporta in gran parte la 3.a scena del I.o atto, tra Marcolina e Fortunata, ponendo in rilievo la diplomazia delle due donne, in cui non c’è ombra d’inganno, ma che per coscienza negoziano il più naturale dei maritaggi con la precauzione che altri impiegherebbero per far accettare un partito cattivo (Les femmes dans la comédie ecc., p. 335). Soltanto il Chatfield Taylor, unica voce discorde in tanto coro di plausi, pensa che il Todero, quantunque tolto dal vero, sia personaggio troppo disaggradevole per essere di stabile interesse (Goldoni. A Biography, New York 1913, p. 340). Ma ci perdoni l’illustre critico americano; è, all’opposto, sorprendente (parli per noi Giulio Piazza) «come da un complesso di qualità così brutte come sono quelle che albergano nell’animo del dispotico vecchio, Goldoni abbia saputo col suo magistrale pennello far scaturire tale immenso tesoro di comicità. Giacchè, badiamo, per il teatro, per la scena, d’intorno a Todero, tutto è festevole, tutto è in una luce chiara, gioconda, ridevole. Todero, nella sua stessa bassezza d’animo, è un personaggio ch’eccita il riso. Dal contrasto superbo di luci e d’ombre ond’è fatta la sua figura, balza un umorismo ch’è espressione d’arte portentosa» (Il Piccolo della sera, Trieste 3 agosto 1913). Cos’altro potremmo aggiungere?

Il Todero bronlolon o Il Vecchio fastidioso si presentò al nostro S. Luca non già nell’autunno 1760, come, mal servito dalla memoria, dice Goldoni (Mem., cap. cit.); ma «fu la dodicesima recita della stagione di carnevale 1761-62, e fu ripetuto per ben dodici sere consecutive». Ne dobbiamo l’esatta notizia alla cortesia d’un minuto ed acuto studioso del settecento veneziano, il dott. Aldo Ravà, il quale la ricavò dallo «Squarzo degli Utili del Teatro per le Recite relative di Autunni e Carnovali 1758-1770» che fa parte dell’archivio del teatro S. Luca (ora Goldoni) di cui sta scrivendo la stona. Possiamo dunque oramai con ogni sicurezza affermare che aprendosi la stagione di carnovale la sera di san Stefano, il Todero apparì per la prima volta nel 6 gennaio 1761 secondo il calendario veneto, e ’62 secondo il calendario comune. E in fatti la Gazzetta Veneta compilata dall’abate Chiari annunciava nel numero 96, ai 16 gennaio 1762: «La Commedia del Re Cervo [di Carlo Gozzi] a S. Samuelle, e quella intitolata El Sior Todero Brontolon a San Luca si sono continuate più sere con molto concorso».

Neanche ci viene in mente di squadernarvi ora il subisso di rappresentazioni che da quell’epoca ad oggi, a Venezia e dappertutto, se ne contarono e se ne contano richiamando sempre un gran pubblico, sempre plaudente; preferiamo invece menzionare i collaboratori dell’autore, ossia quegli artisti che nella squisita produzione profusero la loro vena di comicità deliziosa.

Ci si presenta primo Antonio Martelli, per il quale, secondo il Bartoli, Goldoni avrebbe scritto il Todero, parimenti che il Fabrizio degl’Innamorati, il Don Policarpio della Sposa sagace, il Don Mauro dell’Amante di sè stesso; nelle quali commedie «mostrò tanto valore da diventare il Beniamino di Ve-