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258 ATTO SECONDO

SCENA XVII.

Lindoro, poi Zelinda.

Lindoro. Da che mai può essere provenuto quest’accidente? Io non credo d’averne colpa. Fo quel che posso per contentarla. Fremo in me stesso, e non lo dimostro, inghiotto il veleno, mi mordo le labbra, ed ancora non faccio niente. In verità sono disperato.

Zelinda. ( Viene senza dir niente, e senza veder Lindoro, va all’armadio, lo apre, cambia il fazzoletto bagnato in uno asciutto e netto; e chiude l’armadio.)

Lindoro. (Scoprendola) Eccola qui. Zelinda. (dolcemente la chiama)

Zelinda. (Non risponde, si copre gli occhi col fazzoletto, e vuol partire.)

Lindoro. Zelinda, fermatevi per amor del cielo.

Zelinda. Cosa volete da me? (sdegnosa)

Lindoro. Come state? Come vi sentite?

Zelinda. Sto bene, mi sento bene; bene benissimo che non posso star meglio. (ironicamente, e rabbiosetta)

Lindoro. Bevete un poco di questo spirito di melissa. (teneramente)

Zelinda. No, non ne voglio. (afflitta)

Lindoro. Bevetene due goccioline. (come sopra)

Zelinda. No, non ne ho bisogno. (afflitta)

Lindoro. Via, cara, fatelo per l’amor che portate al vostro caro marito, al vostro caro Lindoro, che v’ama tanto, che vi vuol tanto bene, che siete l’idolo suo, il suo bene, la sua vita.

Zelinda. (Dà in un dirotto di pianto senza dir niente.)

Lindoro. Oimè! Cos’è questo? Povero me! Zelinda mia, per carità, ditemi, cos’avete?

Zelinda. No, ingrato, che non m’amate. (piangendo)

Lindoro. Oh cieli! è possibile che possiate dirlo? che possiate pensarlo? V’amo, v’adoro, siete l’anima mia.

Zelinda. No, non lo posso credere, e non lo credo. (piangendo)

Lindoro. Ah che colpo è questo per me? Son disperato, Zelinda mia non mi crede; il mio cuor, le mie viscere, il mio tesoro. Anima mia, per carità, per pietà. (si mette in ginocchio)