Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1923, XXII.djvu/25

Da Wikisource.

GLI AMANTI TIMIDI 17

Arlecchino. El ritratto so ch’el giera fenìo. So che no mancava altro che metterlo... Come se elise? Sì, in t’una scattola, in t’un stucchio1.

Roberto. E bene, egli si è incaricato di assistere alla fattura, mi ha promesso di mandarmelo avanti sera; ma io ne ho bisogno prima del mezzogiorno.

Arlecchino. Caro sior patron, perchè sta gran premura? Da oggi a doman...

Roberto. Questa sera deggio partire...

Arlecchino. Sta sera? (con ansietà)

Roberto. Sì, che il baule sia all’ordine per questa sera.

Arlecchino. (Oh poveretto mi!) Per dove, sior patron? (patetico)

Roberto. Per Roma. (agitato)

Arlecchino. Mo perchè cussì, co sto precepizio?

Roberto. Sono dieci giorni che doveva esserci andato. Mio zio è moribondo; ed oltre all’affetto e al debito che mi sprona, vi è anche il mio proprio interesse. Sai ch’egli mi ha tenuto luogo di padre, e che dal suo testamento dipende lo stato mio.

Arlecchino. Sior sì; ma avè mandà el camerier: aspettè che Federigo torna da Roma, o che almanco el ve scriva.

Roberto. Non vi è tempo da perdere; ho ricevuto lettere questa mattina, che mi assicurano essere la malattia acuta, e che i medici non gli danno sei o sette giorni di vita. Va subito dal pittore.

Arlecchino. No la va fora de casa sta mattina?

Roberto. Sì, anzi; ho degli affari moltissimi.

Arlecchino. E no la vol che la vesta?

Roberto. Non so dove m’abbia la testa. Presto, vestitemi, e poi andate.

Arlecchino. (Gli leva l'abito che ha; lo veste, e gli dà tutto il bisogno; e frattanto parlano come segue) Lo sali qua in casa che la va via?

Roberto. Non ho ancora veduto nessuno; è ancor di buon’ora.

  1. Astuccio.