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Araminta. E avete trenta persone alla vostra cena?

Conte. Così spero, signora.

Araminta. Permettete voi ch’io vi parli a core aperto, e ch’io vi dica tutto quello ch’io penso?

Conte. Anzi mi farete un piacer grandissimo.

Araminta. Non è una follia manifesta il dar da pranzo o da cena a trenta persone, delle quali venti almeno si burleranno di voi?

Conte. Si burleranno di me?

Araminta. Sì, senza dubbio. Non crediate ch’io sia una femmina avara: grazie al cielo non ho questo difetto, ma non posso soffrire che si getti il danaro male a proposito.

Conte. Ma, signora mia, in un giorno come questo, in una tal circostanza....

Araminta. Sono vostri parenti quelli che avete invitati?

Conte. Non signora. Noi avremo della nobiltà, dei letterati, delle persone togate, infine una compagnia scelta, tutte persone di merito e di distinzione.

Araminta. Male, malissimo: vanità, ostentazione, follia. Amico, voi non conoscete il valor del danaro.

Conte. (Con ammirazione) Io non conosco il valor del danaro?

Araminta. No, non lo conoscete. Vostra sorella mi ha fatto credere che voi eravate economo, ed io l’ho creduto. Se avessi saputo la verità, non avrei accordato mia figlia ad un uomo che getta il suo danaro come voi fate.

Conte. Voi credete ch’io getti il mio danaro?...

Araminta. Oh! me ne sono accorta quando ho saputo che avevate speso una somma considerabile per comprare un titolo, che non rende che della vanità, e niente di benefìzio reale.

Conte. Come! non vedete voi con piacere che il titolo, che il rango da me acquistato, imprimeranno un carattere rispettabile nel sangue di vostra figlia?

Araminta. Tutto al contrario. Vi avrei dato mia figlia più volentieri quando eravate il signor Anselmo Colombani, antico negoziante, piuttosto che ora che siete divenuto il conte di Casteldoro, gentiluomo novello.