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Un voto alla Dea Tharata-Ku-Wha 69

tutto l’amore e tutto il sacrificio di sei anni di giovinezza; dirà certo cose poco gaie per me. Ma no, non è possibile! Non è una recensione: è una serie di contumelie ridanciane, di arguzie alla Guerrin Meschino, di indagini personali, in uno stile che sembra la collaborazione di uno scrivano pubblico ubriaco e d’una maestra zitella fegatosa. E questo sulla rivista massima, sull’organo ufficiale della letteratura italiana! Delizie che in patria danno cinque minuti di malumore e non altro. Ma là, in fondo all’India idolatra, in quella Refreshment-Room d’una stazione barbara, con l’animo già spezzato da una angoscia mortale, il colpo basso mi dà la nausea e un livore ingiusto contro tutta la mia patria, e mi evoca la figura del letteratoide romano, biondiccio come un tedesco, petulante, loquace, stridulo, strano sosia di Camillo Cavour nelle caricature del Teja.

M’alzo con violenza. Che strano! Non soffro più: l’angoscia e l’odio si sono neutralizzati a vicenda cancellando improvvisamente ogni sofferenza:

— Quante ore abbiamo per visitare i templi di Lambahadam? Benissimo. Andiamo.


Fuori, che attendono i passeggeri, tre mezzi di trasporto. Le carrozzelle zebù, il bue indiano