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gobbuto, con le lunghe corna ritorte, ripiegate sul dorso e dipinte a cerchi rossi ed azzurri, i rickshaws, le vetturette di lacca e di bambù trainate a tutta corsa dagli indigeni ignudi. Gli elefanti dalle alte torricelle a otto posti, elefanti centenari, grinzosi come otri, dipinti anch’essi a vivi colori come vecchi cuoi e gualdrappati di sete, di velluti logori e stinti. Nessun europeo: intorno è tutta una folla indigena: nudità di bronzo, bagliore di denti candidi, occhi già troppo grandi, fatti più tenebrosi ed immensi dal bistro con un’arte sconosciuta alle nostre più raffinate mondane, giovinette svelte con non altra veste che una catenella appesa alle reni, e un cuore di metallo oscillante, molto incertamente, sul luogo che dovrebbe coprire.

La città, case bianche o rosee ad un piano, è linda e gaia, sepolta nel tremolìo verde dei cocchi e dei banani. I tetti sono coronati da lunghe strisce nere di corvi, verdi di pappagalli, da infinite code di scimmie convenute a concistoro mattutino. La nostra cavalcatura ci mette all’altezza delle finestre e vediamo nell’interno una donna che si pettina, una madre che sgrida il bambino, un mercante che conta moneta, un’imagine di Vichnou, una statuetta di Siva dalle venti braccia o di Ganesa dalla testa elefantina. E dalle finestre uomini, donne, bambini,