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parte prima - capitolo xxxiii 193

pavoneggiandosi, perocché aveva bevuto ch’era il sedile di Pietro Bembo cardinale, celeberrimo scrittore. Un gufo con due genitali nel destro artiglio gli stava sopra ed era da lui venerato per lo stemma dell’accademia; da quell’altezza si traeva dal seno un fascio di fogli e recitava al congresso con una vociuzza falsa alcune sue spropositate fanfaluche, ch’egli chiamava dissertazioni, alle dieci righe delle quali era interrotto dal picchiare delle mani e dagli applausi degli accademici, che non ne volevano piú, ed egli superbo e persuaso di que’ plausi porgeva con maestá i suoi scartafacci al secretario della brigata, da conservare negli atti dell’accademia.

Quando la detta accademia si radunava nel bollore della state, si portavano all’assemblea de’ vassoi con sorbetti agghiacciati, ma al principe, per segnale di distinzione, si recava un gran peccherone di tè bollente sur una coppa d’argento. Se si radunava nel crudo verno, era ad ognuno del circolo dispiensato caffè, ma al principe, per segnale di distinzione, si porgeva acqua gelata freddissima. Quel venerabile arcigranellone, borioso d’essere onorato e distinto dagli altri, tracannava l’uno e l’altro calice, liquefacendosi in un sudore e tremando e abbrividendo di freddo.

Non sono annoverabili tutte le burle, e sempre nuove, dirette ad un cosí fatto principe, dalla di lui stolta ambizione ricevute per onori, le quali formavano, ogni volta che l’accademia si univa, una farsa comica antidoto alla malenconia. E perché non confessava giammai di non sapere tutto ciò che alcuno degli accademici gli chiedeva se sapesse, egli era obbligato talora a rimare alla sprovveduta, talora a cantare un’arietta in musica e persino a battersi talora nel mezzo all’accademia, spogliato in camicia, con un mastro di spada che lo fulminava di frugoni col fioretto e lo faceva girare per lo spazzo come una trattola. Tutto imprendeva con la franchezza di quell’arcigranellone ch’era, trionfante ognora tra le risa e i plausi che l’assordavano.

Un tal novello Calandrino, di cui io do soltanto un’idea in abbozzo, non era però che un zimbello di richiamo alla gioventú, sempre inclinata alla giovialitá piú che alla grave e rigida