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CAPITOLO IV

Mio imbarco in una galera e mio arrivo a Zara.

Vidi ben tosto ch’io aveva incominciata una carriera mal adeguata al mio istinto, a cui fu sempre caro quel verso di Francesco Berni:

voleva far da sé, non comandato;

ma siccome ho sempre abborrita la volubilitá e amata la costanza nelle mie scelte, non mi degnai nemmeno di mostrare coll’esterno il menomo segno di pentimento.

Mi si apriva per lo meno un uscio alle mie osservazioni sopra a degli uomini d’un nuovo mondo per me.

Questo pensiero mi confortava, e fu sufficiente a farmi l’animo risibile e scherzevole sopra tutte le avversitá e a tutti i patimenti che provai nel mio triennio illirico, passato il quale fui di ritorno alla mia famiglia.

Ho preceduto per ordine di S. E. Provveditore generale Quirini il di lui imbarco sopra una galera appellata: «Generalizia», ch’era al porto di Malamocco.

Fui accolto da un drappello di militari uffiziali, con uno sguardo di curiositá e di gentilezza.

In una corte in cui tutti aspirano a qualche fortuna, si guarda con del sospetto ogni aggregato e si cerca di intendere se sia da temere o da non curare alle occasioni degli avanzamenti agli uffizi, il dono de’ quali dipende dalla volontá e dalla predilezione di S. E. Provveditor generale. Forse per insensatezza, io non fui giammai suscettibile di un tal pensiero, come si vedrá nella narrazione del mio triennio, quantunque un tal pensiero sia un tarlo inseparabile dal cuore de’ cortigiani.

Ho dovuto ingoiare una gran quantitá d’interrogazioni di quegli uffiziali, ed ho risposto laconico, da ragazzo inesperto ma cauto.