Pagina:Grammatica filosofica della lingua italiana.djvu/225

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198 Mi resta ora a fare ana breve digressione sopra il folle uso introdotto dai moderni di nominare colai, colei^ o 00» loro, a cui si parla per la terza persona, perchè, come dico- no, si sottintende wstra signoria o spostre signorie. In con* «seguenza il pronome che rappresenta Tagente dovrebbe es- ser e/^; ma tutu, e principalmente in Toscana, fanno uso di leii e questo lei^ in Tirenze, si prodigalizza anche agli spazzatori di strade. A chi vuol vedere lo sconcio e la mo- struosità del dire necessitato da questo parlare in terza per* sona, supponga che abbia a interrogare due o più persone, e dica: Di che paese sono. . • • ? £ qual nome o pronome metterà dopo sono per agente, essendo questo necessario nella interrogazione? Io non voglio dira una goffaggine , o mettervi uno errore, che tanto^mi suona male airorecchio; e perciò ve lo lascerò mettere ad altri. Poi supponiamo che voglia proseguire, dicendo: Sono mai stati in Italia ? Oltre air impaccio che troverà a poter dare un agente al verbo sono^ farà egli accordare il participio stato con le loro signorie nel femminino, o no? E chi risolverà questa diffi-* colta? Veniamo oramai singolare, e vediamo se c*è minor bri- ga. Se io parlo, per esempio, ad una persona di mia condi- zione, e gli domando : jà che ora è ella tornai^ a casa^ mi parve averla seduto ecc; mi sarà forza fare due errori, tor^ nato e wduto^ o usare un modo ridicolo dicendo tornata e i^eduta. Ma, tanto basta per mostrare il fastidio e la confu- sione di un tal modo di conversare, che toglie tutta la gra- zia, tutta la gravità, e tatto il vigore alla lingua, e ci fa pa- rere quasi altrettanti schiavi avanti al Gran Signore. Lo impaccio è ancora maggiore quando si scrive una lettera, e s* introduca una terza persona del genere femminiiMK Per