Pagina:Gramsci - Quaderni del carcere, Einaudi, I.djvu/477

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i 470 QUADERNO 4 (xill) diocrità, quale è appunto la letteratura socialista offerta al popolo ». « Io credo che se Clemenceau ha fatto per lungo tempo poco conto del socialismo, meno ancora dovette fame quando vide Jaurès diventare l'idolo dei partiti socialisti. La facondia oratoria di Jaurès lo inaspriva. Nella sua "estrema leggerezza” - la definizione è di Giuseppe Rei- nach - giudicò che il socialismo non potesse contenere nulla di serio, dal momento che un professore di università, riconosciuto capo della nuova dottrina, non riusciva a ricavarne che vento. Non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, 78 I non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni, che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare. Clemenceau non crede all’esistenza di una classe che si travaglia a formarsi la coscienza di una grande missione storica da compiere, missione che ha per iscopo il rinnovamento totale della nostra civiltà. Crede che il dovere delle democrazie sia quello di venire in soccorso dei diseredati che assicurano la produzione delle ricchezze materiali, delle quali nessuno può fare a meno. Nei momenti difficili un potere intelligente deve fare delle leggi per imporre ai ricchi dei sagrifici, destinati a salvare la solidarietà nazionale. Un’evoluzione bene ordinata, che conduca ad una vita relativamente dolce, ecco quanto il popolo reclamerebbe in nome della scienza, se avesse dei buoni consiglieri. Ai suoi occhi i socialisti sono dei cattivi pastori quando introducono, nella politica di un paese democratico, la nozione della rivoluzione. Come tutti gli uomini della sua generazione, Clemenceau ha conservato un vivo ricordo della Comune. Credo fermamente che egli non abbia ancora perdonato al popolo di Parigi la brutalità con la quale le guardie nazionali insorte lo cacciarono dal palazzo del Comune di Montmartre». I due brani nell’articolo della «Nuova Antologia» sono stampati come un tutto organico; nell*«Italia Letteraria» come distinti: tra il primo e il secondo il Missiroli scrive: «E altrove: », ciò che fa meglio comprendere stilisticamente il contesto 2. [Sorel.] Questi due brani spingono sempre più a pensare che occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitane deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente. Bisogna tener presente che si è esagerato alquanto sulla « austerità » e « serietà » morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre ha saputo vincere gli stimoli di una certa vanità: ciò risulta dal tono molto impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con elementi giovani della tendenza monarchica e 78 bis clericale \ Ancora: c’era un certo | dilettantismo negli atteggiamenti « politici » del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «politici-culturali», «politici-intellettuali», «au dessus de la mêlée»: anche a lui si potrebbero muovere alcune delle accuse contenute nell’opuscolo di un suo discepolo I misfatti degli intellettuali \ Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare con 193O-1932: APPUNTI DI FILOSOFI