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76 Brani di vita

giungemmo alle falde del Monte Fumaiolo, nel povero villaggio di Monte Coronaro.

Ci parve di entrare in un racconto di Edgardo Poe, in una delle fantasticherie malate dell’Hoffmann. Nelle case cadenti, nelle mura rugginose e sconnesse si spalancavano i vani neri delle finestre alle quali non si affacciava anima viva. Le stradicciole scoscese, arroventate sino al color bianco, erano deserte. Di quando in quando certe figure lacere e giallastre attraversavano i viottoli senza far rumore, a capo chino, come se pensassero a qualche mistero profondo, e incontrandoci non movevano nemmeno gli occhi, quasi non vedessero, non sentissero, assorte in una paurosa contemplazione. Altrove i fanciulli ci correvano incontro, i villaggi andavano a rumore per l’arrivo dei viaggiatori dai cappelli stravaganti, dalle uose bianche, dai bastoni spettacolosi; qui, niente. Pareva d’essere nel mondo dei sogni, in un mondo di forme senza densità, di spettri pensosi, lenti, muti, che passavano senza vederci e ci lasciavano come una strana impressione d’impassibilità, una penosa sensazione di fatalità indefinita.

Tutte le mosche, delle quali all’aria aperta avevamo osservata e benedetta l’assenza, tutte le mosche erano convenute nell’ampia cameraccia dell’osteria, forse a celebrare un centenario od eleggere un deputato. C’erano tutte e ronzavano lente, solenni, con una nota profonda e continua, attorno all’ostessa, donnona un po’ flaccida che faceva gli occhi di pesce cotto ad un giovinastro fra il giallo e il livido. Presso la cappa del camino, sopra un alto seggiolone, se-