Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/66

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amalia guglielminetti

sbigottito di prima e mi sentivo il cuore traboccante di una gioia quasi ebbra.

Prima che la stagione finisse, ci fidanzammo. Venne da Roma suo padre, vennero un fratello e una cognata ed io le posi al dito l’antico anello di fidanzamento della mia povera mamma, un rubino circondato di brillanti, che io amavo come una cosa sacra. Divenimmo l’argomento di tutte le conversazioni, la mèta di tutti gli sguardi, e Livia invece di soffrirne e di sfuggirli come a me accadeva, pareva compiacersene e vi si esponeva con una specie di serena arroganza che mi stupiva.

Ella continuava ad essere per me una creatura inafferrabile, quantunque avessi messo al suo dito un simbolo di fede e circondato il suo polso d’una catena di schiaviù.

Le avevo già offerto quasi tutti i gioielli di mia madre che ne possedeva alcuni bellissimi e d’insigne fattura e ch’io conservano in uno scrignetto d’avorio antico, e prezioso anch’esso come un reliquario. E Livia amava le gemme e gli ori con tale passione che li portava su di sè sempre, anche la notte, non solo come un ornamento, ma quasi come un complemento necessario della sua bellezza, come lo sfolgorìo stesso dei suoi occhi grigi fra le ciglia nere o dei suoi denti candidi fra le labbra vermiglie.

Ella godeva infantilmente di destare l’invidia

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