Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/507

Da Wikisource.

capitolo xxvi. 501

d’uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli


di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, chè ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l’andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non fece altro che mulinare, far disegni sull’avvenire, e sospirar l’indomani. Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que’ cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All’alba, s’alzò e s’incamminò subito verso la villa, dov’era Lucia.

Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d’aprirsene con la madre in quell’abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l’ultimo.

Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi sentire, cominciò: “ho da dirti una gran cosa;” e le raccontò l’inaspettata fortuna.

“Iddio lo benedica, quel signore,” disse Lucia: “così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.”

“Come?” rispose Agnese: “non vedi quante cose possiamo fare, con tanti danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perchè Renzo, da che cominciò a discorrerti, l’ho sempre riguardato come un mio figliuolo. Tutto sta che non gli sia accaduta