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Per un pajo di zucche.


Don Cosmo e Capolino, piccoli, neri, sotto un cielo altissimo, cupamente infocato dal tramonto, s’erano messi intanto a passeggiare innanzi alla vecchia villa, per il lungo, diritto viale, che fa quasi orlo, a manca, al ciglio, d’onde sprofonda ripido un burrone ampio e profondo, detto il vallone.

Pareva che lì l’altipiano per una convulsione tellurica si fosse spaccato innanzi al mare.

La tenuta di Valsanìa restava di qua, scendeva con gli ultimi olivi in quel burrone, gola d’ombra cinerulea, nel cui fondo sornuotano i gelsi, i cambi, gli aranci, i limoni, lieti d’un rivo d’acqua, che vi scorre da una vena aperta laggiù in fondo, nella grotta misteriosa di San Calògero.

Dall’altra parte del burrone, alla stessa altezza, eran le terre alberate di Platanìa, che a mezzogiorno scendono minacciose su la linea ferroviaria, la quale, sbucando dal traforo sotto Valsanìa, corre quasi in riva al mare fino a Porto Empedocle.

La zona di fiamma e d’oro del tramonto traspariva in un fantastico, meraviglioso frastaglio di tra il verde intenso degli alberi lontani, di là dal burrone. Qua, su i mandorli e gli olivi di Valsanìa, alitava già la prima frescura d’ombra, dolce, lieve e malinconica, della sera.

Quest’ora crepuscolare, in cui le cose, nell’ombra calante, ritenendo più intensamente le ultime luci, quasi si smàltano nei lor chiusi colori, era alla solitudine di Don Cosmo più d’ogn’altra religiosa. Egli aveva costante nell’animo il sentimento della