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LVII

Epistola seconda al prefato papa

     Lo pastor per mio peccato — posto m’ha fuor de l’ovile,
non me giova alto belato — che m’armetta per l’ostile.
     O pastor, co non te sveghi — a questo alto mio belato?
che me tragi de sentenza — de lo tuo scomunicato,
de star sempre empregionato; — se esta pena non ce basta,
puoi ferire con altra asta, — como piace al tuo sedile.
     Longo tempo agio chiamato, — ancora non fui audito;
scrissete nel mio dittato — de quel non fui esaudito;
ch’io non stia sempre amannito — a toccar che me sia operto;
non arman per mio defetto — ch’io non arentri al mio covile.
     Come ’l cieco che clamava — da passanti era sprobrato,
maior voce esso iettava: — Miserere, Dio, al cecato.
— Que adimandi che sia dato? — Meser ch’io revegia luce,
ch’io possa cantar a voce — quello osanna puerile. —
     Servo de centurione, — paralitico en tortura,
non so degno ch’en mia casa — si descenda tua figura;
bastarne pur la scrittura — che sia ditto: — Absolveto. —
Ché ’l tuo ditto m’è decreto — che me tra’ fuor del porcile.
     Troppo iaccio a la piscina — al portico de Salamone;
grandi moti sí fa l’acqua — en tanta perdonazione;
è passata la stagione, — prestolo che me sia detto;
ch’io me lievi e toll’al letto — ed artorni al mio casile.
     Co malsano, putulente, — deiattato so dai sane,
né an santo né a mensa — con om san non mangio pane;
peto che tua voce cane — e si me dichi en voglia santa:
— Sia mondata la tua tanta — enfermetate malsanile! —