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pensiero, recavo nelle mie lezioni col Dazzi, una vivacità insolita, un ardore di conquiste intellettuali, una tal febbre di emancipazione dalle solite pastoie classiche, che alla fine, insensibilmente, guadagnarono anche lui... Tanto che il brav’uomo cominciò a venire a lezione, quando col Coppeé che allora menava gran grido in Francia, quando con Sully-Prudhomme, quando col grandissimo Victor Hugo!

E maestro e scolara facevano a gara a cercare, a leggere, a ritenere a memoria i passi più splendidi dei tre poeti! ... Venerabili ombre di Dino Compagni, di Ciullo d’Alcamo e di Onesto Bolognese, dove vi nascondevate in quei momenti?

Vengo al Nencioni.

Tutti, più o meno in Italia, intonarono l’epicedio al morto gentile poeta: alcuni, e fra questi giova ricordare Matilde Serao, Ferdinando Martini, Gabriele d’Annunzio e Rastignac della antica Tribuna, ebbero parole veramente alte, ispirate ad alto dolore, a sincero rimpianto: la maggior parte, come al solito, si servì del morto per sodisfare alla propria vanità e piovvero alle redazioni de’ giornali (anche alla mia Cordelia!) le Odi, le Elegie i Discorsetti, le Istantanee in cui il povero Enrico veniva strapazzato peggio d’un cristiano in mano di un turco. Io nulla potei scrivere intorno all’amico dolcissimo: ma oggi sono ben lieta, ben orgogliosa di dichiarare che io non aspettai a conoscere, a stimare, a venerare il Nencioni quando la sua fama era già assicurata e il suo nobile ingegnò universalmente riconosciuto: io, si signori,