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Proferite queste parole, mentre la moglie era uscita quasi fuori di sè per lo spavento e il dolore, rimontò in carrozza e si fece condurre al lazzaretto. Là fu ricoverato d’urgenza. La moglie, appena rimessa dal primo orribile stupore, gli corse dietro; ma all’ospedale non fu fatta passare. Il giorno dopo il mio eroico nipote era morto.

Mi annunziò la sciagura l’Alfonsina con questo telegramma: «Ettorino ha cessato di vivere. Scriverò. Sono in uno stato incredibile» .

E per una fatale combinazione, come l’Egle era morta il 17 di maggio, giorno successivo al mio compleanno, così Ettore spirò il 13 di novembre, giorno in cui compiva precisamente i venti anni la sua sorellina, l’Ebe!...

Fino dall’epoca del secondo matrimonio di mia sorella, il babbo era venuto a stare con me, nella casa di Piazza del Duomo.

Non era stato facile il persuaderlo, giacchè egli nella sua fierezza non voleva mai esser causa del più lieve imbarazzo per nessuno; io d’altra parte non potevo permettere che mio padre vivesse solo, senza conforto di affetti, sicchè a furia di pregarlo e ripregarlo riuscii a convincerlo. Nei tre anni che egli rimase con me, la sua vita si riassunse in una sola parola: Lavoro. Quantunque gli anni gli pesassero sulle spalle, (era nato nel 1804), non mancò un giorno solo al suo dovere. I colleghi d’ufficio l’adoravano, tanto era buono, onesto, delicato, servizievole. Ac-