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PPREFAZIONE XXIX


C’è il Sibarita. Meglio, c’è il Siracusano, il Siciliano, che alla sensibilità artistica accoppia la invincibile tendenza al dolce far niente. Siracusa era colonia di Corinto, e Corinto era dorica; ma c’è da scommettere che nelle vene di Teocrito dovesse correre qualche stilla di sangue orientale. La sua poesia è proprio agli antipodi dall’austerità dorica. Essa mi fa pensare ad una mirabile intuizione di Gabriele D’Annunzio (Notturno): «La vita non è una astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensibilità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare da palpare da mangiare».

Una terza nota, originale e simpatica possedeva certo Teocrito, etico umoristica, di sapore schiettamente oraziano. Appare ne ii Le Grazie», e serpeggia qua e là, in qualche introduzione e in qualche digressione (Vedi note a «Le Grazie»). Ma rimane in germe.

Un’altra, invece, e sommamente caratteristica, investe ogni parte, s’insinua in ogni piegatura dell’opera sua: ed è la musica dei suoi versi.

I poeti classici di Grecia componevano insieme le parole e le note delle loro poesie, che erano, piú o meno distesamente, cantate. Sicché, una parte della complessa armonia rimaneva affidata al canto.

Ma via via, avvicinando il momento alessandrino, la musica abbandonò il verso, e questo, pei suo effetti, dovè contare unicamente su le parole.

La tecnica verbale ne usci, senza dubbio, perfezionata. Se non che, negli altri poeti alessandrini fu perfezione esterna e frigida, che eliminava ogni spirito musicale.

Invece, la musicalità dei versi di Teocrito è tale, che non trova riscontro, forse, in verun altro dei poeti greci. Il suo spirito profondamente, nativamente armonioso, non dovendo concedere alcuna vibrazione alle note, rimane concentrato tutto quanto nei versi, prodigiosamente. Negli idilli sono, come vedemmo, ele-