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IDILLIO VII 57


LICIDA

Per Mitilene avrà felice Ageàne la rotta,
sia pur che Noto sotto le occidue stelle del Capro
gli umidi flutti innalzi, sia pur che Orione sul mare
fermi il suo piè, se vorrà dall’amor che lo cuoce far salvo
Licida: poi che amore mi brucia rovente per lui.

E placheran le alcïoni il pelago, e l’Austro, e il Levante
che l’alighe sconvolge dal fondo del mar: le alcïoni
che di marina preda si nutrono, e sono dilette
alle azzurrine figlie di Nèreo su tutti gli alati.
Ad Ageàne, che brama toccar Mitilene, ventura
arrida in tutto; e al porto pervenga con prospero corso.

Ed io, quel giorno, un serto di rose, di bianche viole,
d’anèto, ai crini miei recinto, vicino a la fiamma
sdraiato, mescerò dalla bómbola vin di Ptelèa,
mentre qualcuno farà su la brace abbrustire la fava.

Ed alto il mio giaciglio sarà d’un buon cubito, colmo
di pulicaria sarà, d’asfodelo, di sedano crespo.
E dolcemente berrò: d’Ageàne verrà fra le coppe
il sovvenire; e la tazza berrò sino a l’ultima feccia.

E suoneranno il flauto per me due pastori: un d’Acame,
uno di Licopi; e Titiro, presso, dirà nel suo canto
come una volta Dafni pastore s’accese di Sènia,
e la montagna con lui soffriva, e piangevan le querce,
quante del fiume Imera verdeggiano presso le sponde,
quando egli si struggeva d’amor, come neve su l’Emo,
su Ròdope, su l’Ato, sui picchi del Caucaso estremo.