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il baretti 3

Il pubblico italiano ha cominciato a fare conoscenza con le opere di Jack London nel migliore modo: cioè per via di traduzioni fatte direttamente dall’originale americano, senza riproduzioni dal francese, senza lavori e presentazioni critiche. Nè credo ce ne fosse bisogno. L’arte di Jack London, dov’è arte, è semplice ed elementare; per il resto è mestiere giornalistico e letterario di un uomo che sa fabbricare con abilità le trecento pagine di un romanzo e le tre colonne di una short-story, secondo le indicazioni dell’impresario del foglio o del magazine anglosassone. Tutto alla levatura di tutti. Gli autori tipici americani conosciuti da noi sono pochi: Bret-Harte, Hawtorne, Cowper, Mark Twain; e la maggior parte son catalogati, con una specie di disdegno, fra gli autori per ragazzi. Anche l’amara beffa di Murk Twain è stata abbandonata alle collezioni amene per la gioventù.

Pochi ne conosciamo, pochi ve ne sono da aggiungere.

Edgar Poe resta europeo, inglese. Tuttavia...Ma non dobbiamo parlare di lui.

Perché sono essi finiti nella letteratura per ragazzi, compresa buona parte, la più letta, di Poe?

Perchè sono autori più aderenti ad una vita primitiva. In fondo a tutta la vita americana, politica, religiosa od artistica, c’è il mito del Pioniere, come in Italia c’è il mito del Romano. Se noi apriamo una modesta strada comunale, il Sindaco del paese, basta che abbia fatto il ginnasio, parlerà certo di Roma nel discorso inaugurale e gli parrà d’essere un legionario selciatore di vie imperiali. In America qualunque ragazzo vada a metter le tende con i suoi compagni sulle rive del non più selvaggio Missipipì, si sente uno di quei puritani che lo attraversarono con il fucile in mano e la Bibbia dentro il carro coperto.

C’è tuttavia una differenza di vivacità: che qualche ragazzo americano ha sentito parlare del bisnonno che aveva sulla canna del fucile tante tacche quanti uomini aveva ammazzato. I nostri ricordi romani sono alquanto più languidi.

Jack London rappresenta molto bene questo ideale di vita americana. Tutti conoscono, almeno all’incirca, la sua vita avventurosa e povera, condotta fino a più di venti anni. Egli è stato marinaio, cacciatore, cercatore di oro, lavandaio, pirata... di ostriche. Ha cominciato a studiare tardi, dopo avere vinto un premio letterario nel concorso di un giornale. Ha dovuto imparare nello stesso tempo il contegno di un gentleman a tavola e il retto uso di shall e di will, secondo le buone tradizioni inglesi, in una università della California, mentre per vivere tirava i panni in una stanza infuocata.

Gli americani trovano che è un’ottima educazione pagare il biglietto d'entrata nella vita.

I romanzi di Jack London rispecchiano un po’ tutti vite dal biglietto pagato. Quando non valgono molto come creazioni d’arte, interessano come documenti. I romanzi di London sono pieni di brani autobiografici.

Nelle avventure vere e inventate, fantasticamente e corposamente concepite, o oleograficamente tinte del London c’è sempre un sentimento, una nota più o meno sentita, che forma la sua caratteristica profonda e originale. E’ il rinascere del selvaggio nel civile, del primitivo nel cittadino, della natura nell'artificio. Quando tocca questo punto London è quasi sempre un artista, è quasi sempre uno scrittore. Il suo capolavoro è il più breve dei suoi libri: The call of the wild, titolo intraducibile. «L’appello della foresta», come è stato tradotto in italiano e in francese, non mi pare che ne renda bene la lettera nè lo spirito. Discussi un giorno mezz’ora con André Gide e non riuscimmo a trovare un equivalente. E’ la vita selvaggia, il nocciolo primitivo che torna ed affiora alla superficie polita di un essere incivilito. Questo essere incivilito è un grosso cane lupo. Buck vive tranquillo in una grande villa, amato e accarezzato. Non sa che cosa farsi dei suoi denti. Contro chi li adoprerebbe? Ma un ladro domestico lo vende, un treno lo porta lontano, un donatore gli fa fare conoscenza con la legge del bastone, attaccato a una slitta impura a conoscere le lotte per la supremazia sui compagni, e finalmente, quando il suo ultimo padrone muore colpito dagli indiani in mezzo a una regione dove regnano neve e lupi, egli ritorna lupo, vero lupo, più forte ed astuto degli altri del branco sui quali domina incontrastato e leggendario. Il libro ha un crescendo intonatissimo. Si comincia dalle scene idilliche del primo capitolo (villa, bambini, aria profumata del mezzodì) e si finisce con l'ululato alla luna del branco dei lupi in mezzo al deserto di neve. Si comincia con particolari realistici, con quadri che tutti abbiamo veduto e si sale sempre di più verso il meraviglioso. Alla fine del libro, Buck non è più un cane ma un essere mitico.

Che cosa vi è di autobiografico qui dentro? A prima vista nulla. Che cosa vi è qui di documentario? A prima vista soltanto il puro materiale: figure di cercatori di oro, di postini attici, di addestratori di cani, di donne d'avventura di tutta quella gente rude, spesso equivoca, inerte d'origine, che s’era precipitata verso la promessa dell'oro nelle regioni dove le notti o i giorni sono più lunghi che da noi, e il gioco era l'unica distrazione degna di gente che arrischiava la vita ogni dì. Eppure nulla è più autobiografico di questa storia di cane, nemmeno quel noioso Martin Eden dove London racconta la sua vera storia di marinaio diventato celebre scrittore e fidanzato a una signorina di buona famiglia. The call of the wild è autobiografia poetica. Il cane, quel cane è proprio London, come doveva sentirsi certi giorni in mezzo ai signori vestiti di nero e alle dame scollate, alle quali, un po’ per fare colpo e un po’ naturalmente per reazione, amava presentarsi col colletto basso o in maglione. Dicono: è la psicologia del cane, il mondo veduto da quel cane che appare meravigliosamente. Ma no: è la psicologia di London descritta con cura ed efficacia straordinaria. Le bestie di Kipling, che sono state ricordate, son altra cosa: esse non divengono selvagge, ma sono e restano tali. Ora, dopo tanti anni e mesi che ho letto i suoi scritti, le figure di London mi si confondono un po’ tutte nella luce unica che danno gli occhi di Buck. C’è sempre lo stesso problema. Nel Lupo di mare un gentleman, fine letterato, viene buttato in mare per il cozzo di due navi, e raccolto da un veliero un po’ misterioso che traversa il Pacifico per scopi non chiari. Altro che tornare alla pace della casa e del quieto salotto, a scorrere riviste e scrivere versi delicati! Non c’è verso di scendere, non c’è somma che faccia sbarcare. Il padrone della nave è un essere brutale ed ironico, che costringe il gentleman a conquistarsi il proprio posto sulla nave, cominciando dal fare da sguattero al cuoco. La lotta è dura. Il gentleman, che crede nella buona educazione non meno che nella Bibbia e nei suoi comandamenti, si trova un giorno ad affilare un coltello e non con l’intento di tagliare le patate ma, se occorre, la gola di un uomo. E’ il momento buono per il padrone della nave, pirata nietzscheano, per interrogarlo sulle menzogne cristiane. Il gentleman deve conquistarsi un posto, salvarsi la vita, difendere persino la propria donna con le armi di un selvaggio, con i mezzi primitivi di un naufrago. Quando ritornerà alla sua casa e alle sue rendite sarà certo un altro uomo. Anche in Aurora radiosa l’eroe che si è fatto una fortuna americana cercando l’oro e comperando case, terreni, segherie, fattorie con abilità, un bel giorno, quando ha voluto giocare la partita in piena New York sarebbe spogliato di ogni cosa se non facesse appello alle abilità dei tempi passati e, attirati i suoi avversari di Borsa in un tranello, con un buon revolver alla mano non li costringesse a restituire il mal acquistato peculio.

Su questo London salvatico la coltura improvvisata e tarda giocò un de’ suoi tiri. Crebbe una storta torre di positivismo e di socialismo, ora ingenuo, ora frasaiolo, ora mitico, ora sentimentale. La più alta filosofia erano per London i Primi Principii di Spencer! Bisognava negare la religiosità bancaria delle classi benestanti americane e non restò in mano al London un migliore strumento. Non è il caso di insistere. Non vediamo anche ai dì nostri migliori artisti di London impegolarsi nel frasario alla moda?

C’è da notare piuttosto che la visione del socialismo di London ha talora degli accenti che echeggiano e fan risentire quella nota tutta sua di cui ho parlato. Nel Tallone di ferro c’è una visione dell’età futura socialistica. Ma egli non si è attardato a descrivere Bengodi. Ha invece descritto le lotte, durate per secoli, selvaggie di freddo accanimento, fra il «Tallone di Ferro» una sorta di Fascismo internazionale agli stipendi del capitalismo di tutto il mondo, e le organizzazioni proletarie, nascoste in catacombe o svolgono a colpi mortali, con regolari sistemi di spionaggio e di controspionaggio, con esecuzioni capitali immediate o con repressioni spaventose o con attentati crudeli. Egli sentiva che il Bengodi non sarebbe venuto se non fosse stato pagato con un caro biglietto di ingresso. Anche nel Tallone di ferro c’è un po’ di «Storia di Buck». I racconti delle Isole del Sud appartengono agli ultimi anni di London, quando egli era diventato uno scrittore ricco e poteva pagarsi il lusso di fare delle crociere nel Pacifico. Esse appartengono ad una letteratura che non è americana o inglese, ma che direi dei Mari del Sud. E’ la letteratura di Tahiti, inaugurata dal povero marinaio Melville, e divenuta celebre per Stevenson e per Gauguin. Chi non ha provato il fascino di quei mari, di quei colori, di quelle nature di antichi cannibali, dalla complicata etichetta di corte e dalle agghindature di semplici fiori sul corpo nudo? Eppure anche qui mi sarebbe possibile trovare nelle novelle di London, qualche volta, una traccia di Buck.

Questo è Jack London, del quale, dopo il pubblico americano, dopo il pubblico inglese, dopo il pubblico tedesco, dopo il pubblico francese, anche il pubblico italiano viene a fare la conoscenza. Jack London è un artista, quando è artista, americano, ma non è tutta l’America. Egli è uno scrittore americano in quanto adopra la lingua «americana» e non l’inglese universitario (il dialetto di Oxford). Non è l’America di oggi. E’ l’America di cinquant’anni fa. L’America di ferro e di fumo si vedrà soltanto in Sandburg, l’America protestante con Lee Mastas. London è in parte un autore per giovinetti. Corue Cooper, come Bret Harte, Come Mark Twain. Noi sentiamo che è una letteratura giovine e la teniamo per i nostri ragazzi. Noi non riusciamo a credere al mito del Pioniere: ma lasciamo che ci credano i nostri figliuoli.

Ho sentito dei contrasti su questa mia opinione intorno a Jack London. Dicono il Dàuli e la Formiggini che il London descrive la vita troppo dolorosa per esser dato in mano ai ragazzi. Lungi da loro l’idea del male!

Questi contrasti non mi persuadono. I ragazzi leggono Sàlgari. Sàlgari è grossolano e volgare. I suo eroi sono fantocci. Il fine dei suoi eroi è sempre la conquista dell’oro. I suoi paesi sono approssimativi e meritano soltanto la spiritosa caricatura che ne ha fatto Yambo.

London può essere messo nelle mani di qualunque ragazzo. Non imparerà nulla di male. Non vi è una parola oscena, nè un pensiero equivoco. Se le vite descritte da Jack sono dure, se i suoi eroi conquistano il mondo facendosi i calli ai gomiti, non credo che i ragazzi si scandalizzeranno. Anche nelle loro famiglie i ragazzi sentiranno che il mondo non ha strade coperte di velluto, ma di selci, durissime.

Il London risponde al bisogno di avventure che è nel fondo spirito infantile. C’è nei suoi romanzi un soffio più potente di quello dei soliti libri per ragazzi; è un soffio che viene dal mare grande, dalle cime dei monti, dalle foreste libere, dalle pianure sterminate di neve, dalle fattorie sperdute nei deserti di grano. Le scene di London possono, talora, cadere nel sentimentale. Ma nulla di orrido, nulla di sgradito, nulla di fumoso le guasta. C’è dell’eroico: che sarà talora mitico, talora oleografico, ma che non fa mai male a nessuno, e tanto meno ai ragazzi.

Giuseppe Prezzolini


Traduzioni di London in italiano: Il Lupo di mare, tr. da G. Prezzolini, Morreale, Milano. — L’Appello della foresta, trad. da G. Dauli, Modernissima, Milano. — Ambedue direttamente dal testo. — Un’altra traduzione di questo libro, a cura dello scrittore A. Calitri, escirà presso Morreale, Milano. — Una troppo diffusa biografia di J. I., è quella della moglie pubblicata in 2 vol. presso Mills A. Bown, Londra, 1921.


SPIAGGIA DEL SUD:

DANZATORI

Immoti eravate distesi sull'erba presso il pineto — atleti fanciulli — uguali nelle belle membra abbronzate e robuste, ingenui gli occhi in appagata gioia.

Da terra vi levaste, su, in ritmo, tuffandovi nel meriggio, sorridendo, puri, e danzaste — divinamente ignudi — certo, sulle gambe snelle il petto ampio.

Da quale urna, da qual fregio mai scendeste nella vita, parati a festa, così leggeri a curvarvi nel bacio, voi che sulla stellata prateria vi slanciavate danzando!

IL COMBATTIMENTO



Ebbro di sole e di sangue
Fuor dell’asilo roccioso
Balzo, e il dio vago ricciuto
Spio nella piana odorosa
che col suo passo danzante,
Colla sua bocca canora
Me nel mio speco dileggia.

Ebbro di sole e di sangue
Fuor dell’asilo roccioso
Balzo, e il dio vago ricciuto
Spio nella piana odorosa
che col suo passo danzante,
Colla sua bocca canora
Me nel mio speco dileggia.

Conosca egli oggi il furore
Che dal profondo rampolla
Nella mi stretta serrandolo
l’eremo le tenere carni.
Ve’ com’ei marcio, un fanciullo
Via questa clava - un sol pugno
Odiato, e ti fo stramazzare.

Guardati!... Oi me, come chiaro
Lo sguardo suo mi ferisce!
Già nella lotta secreta
Cupa di torbida fiamma
Sulla masnada io vinceva...
Vile, raffrena quel lampo,
Il braccio solo ti valga!

Ahi! colla luce combattono.
Quel ch’ei ghermisce egli atterra.
Calcando stampa il suo piede
Sull’ansimante mio petto.
E sorridendo ora cauta...
Ebbro di sole e di sangue

Naufrago in squallida morte.


Torbida anima - così chiedevi - a che vesti gramaglia?
Tal grazie rendi per la nostra grande ventura?
Debole anima - io ti dissi - già mutata in doglianza
E’ quella gioia, e fino alla morte mi preme.

Smorta anima - tu chiedevi - spenta è dunque la

[fiamma


In te per sempre, ch’in noi arse divina?
Anima cieca - ti dissi - io sono tutto fiamma:
Tutta questa mio pena è desio sol che mi strugge.

Dura anima - così chiedevi - e che può darsi
Più di quel che giovinezza non dia? Ogni mio bene

[ho dato...


Più alto voto è mai che questo onde un cuore

[s’accumula:



Deh! prendi, ecco, a guarirti il sangue mio!
Anima lieve - così ti dissi - ch’è mai amar per te!
Un’ombra appena di quel ch’io t’offersi....
Cupa anima - così dicesti - io debbo amarti
S’anche è per te che ormai il mio bel sogno è morto.

(Der Siebente Ring).

STEFAN GEORGE.

(trad. da G. A. e A. E.).

ART ET INDUSTRIE

Il pourra peut-être sembler 'léger de comparer un atelier industriel à un orchestre; l’industrie, dira-t-on, n’est pas l'art; et compter, pour assurer la production, sur un enthousiasme artistique analogue à celui qui anime un musicien amateur faisant partie d'un orchestre, c'est vraiment tomber dans l'utopie pure et simple et de connaître cette vérité fondamentale que le travail quoi qu'on fasse pour en améliorer les conditions, ne pourra jamais s'éléver des régions de la dure nécessité à celles de la liberté: tu travailleras à la sueur de ton front, tel est la loi, et telle restera la loi, malgré toutes les rêveries que l’optimisme démocratique peut inspirer à des gens émancipés du sage et profond pessimisme chrétien. Je pourrais d'abord repliquer que ma comparaison d'un atelier socialiste avec un orchestre porte sourtout sur le caractère non patronal de la direction; un chef d'orchestre ne possède pas son orchestre, comme un patron possède son usine; mais cette question de la discipline dans un atelier syndacaliste est trop importante pour ne pas s’y arrêter longuement et il importe de bien faire voir sur quels ressorts exacts elle reposera. On pourrait tout d'abord faire observer que l’artiste n’est pas nécessairement l’être capricieux et fantasque qu’imaginent nos bourgeois, pour qui, sans doute, une existance de bohème semble l’accompagnement obligatorie d’une vie artistique, il y a une conception bourgeoise de l’art, qui n’est d’ailleurs qu’un decalque des anciennes conceptions aristocratiques, et qui assimile l’artiste à un amuseur, à une espèce de bouffon ou de fou (comme il y en avait dans les cours et dans les grandes maisons seigneuriales); à qui l’on permettait toutes sortes de fantaisies et de libertés. «Quand on parle de la valeur éducative de l'art, écrit Sorel (Réflexions, p. 378, en note), on oublie souvent que les moeurs des artiste modernes, fondées sur l’imitation d’une aristocratie joviale, ne sont nullement nécessaires et dérivent d’une tradition qui a été fatale à beaucoup de beaux talents». La vérité, c’est qu’il faut, avec Sorel, considérer l’art comme une anticipation de la plus haute production; le véritable artiste n’est pas ce travailleur fantaisiste et bohème, qui hante l’imagination à la fois scandalisée et miaisement séduite de nos bons bourgeois, mais un ouvrier extra-qualifié, dont la vie, trés regulière, est toute subordonnée à son travail, pour lequel il éprouve un goût, une ardeur, un désir de perfection si infini qu’il n’est jamais satisfait. La bourgeoise ne peut pas imaginer à l’activité d’autres mobiles que l’amour du lucre et du profit, et si l’ouvrier travaille, évidemment c’est qu’il y a l’ homme au fouet, le Maître, qui impose du dehors sa rude discipline, lui-même n’aspirant qu’à acquérir, le plus rapidement possible, une grosse fortune. Comme le dit Marx, la bourgeoisie a noyé tous les sentiments «dans les eaux glacées du calcul égoiste»; et tous les mobiles désintéressés ont perdu, sous sa dominntion, une grande partie de leur force: l’homme est devenu étrangement et férocement utilitaire. Mais il appartient au socialisme de redonner aux puissances désintéressées de l’âme humaine un essor inconnu jusqu’ici. Pour le monde antique, le travail était servile, et l’esclave n’avait point de part a la raison, toute logée dans le cerveu du maître; pour le monde chrétien, l’ouvrier a bien acquis une âme immortelle, à qui le maître est tenu de témoigner une certaine charité, comme à une figure du Christ, et selon le précepte que «qui donne au pauvre, prête à Dieu»; mais il reste au fond un serf; pour le monde socialiste, le travailleur social sera l’homme enfin parvenu à la liberté, maître de lui-même et de la société, organisée toute entière selon le plan d’un atelier hautement progressif, et où la véritable ascèse sera précisement le travail, non plus servile, comme celui d’un être privé de raison (Aristote), non plus le résultat de notre déchéance originelle et soumis par suite à toutes les disgraces inhérentes à cette condition, nécessaires d’ailleurs à notre salut, comme dans la conception chrétienne: mais affirmation normale de la vie, expression la plus haute de notre personnalité et orgueil suprême d’un être libre.

Edouard Bratn

PIERO GOBETTI - EDITORE

TORINO - Via XX Settembre, 60

LETTERATURA


F. M. Bongioanni: Venti poesie |||
 L. 8
V. Cento: Io e me. Alla ricerca di Cristo |||
   » 6 —
T. Fiore: Eroe svegliato asceta perfetto |||
   » 4 —
T. Fiore: Uccidi |||
   » 10,50
G. Sciortino: L'epoca della critica |||
   » 3 —
M. Vinciguerra: Un quarto di secolo (1900-1925) |||
   » 5 —

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