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La pittura italiana nel primo 800

Tra tutti i secoli della pittura italiana, il diciannovesimo, di cui è più possibile ricostruire la storia in forma di romanzo, tenendo conto dell’umanità spesso artisticamente inespressa che vi ebbe vita, che non illustrare con rigore critico e scientifico, è certamente, considerato nella sua apparenza prospettica, uno dei più stravaganti.

Antonio Canova e Lorenzo Bartolini imprimono a tutta la prima metà dell’800, l’uno succedendo all’altro e dell’altro svolgendo con nuovo spirito i concetti e le forme, un’immagine di vigore risonante e dilagante come accade in certi primi versi di grandi poesie che assommano in loro il senso di tutta la composizione e lasciano che i versi restanti si facciano cantare per intrattenere, il più a lungo possibile nei lettori, quella primitiva impressione.

Senza volere stabilire dei confronti meno che vaghi, il Canova visse artisticamente, e alla sua maniera, l’esperienza che in Francia faceva Louis David, conosciuto personalmente dal Canova quando questi si recò a Parigi, nel settembre dell’802 a scolpirvi quella testa del primo Console che doveva far parte del Napoleone monumentale.

E come il Canova si può riferire al David, così il Bartolini, nella squisita leziosità delle sue pieghe e nella sua fredda e sapientissima dolcezza, seguiva, storicamente, quella linea di perfezione che in Francia veniva a illuminarsi nel nome di Jean Dominique Ingres. Senonchè gli artisti francesi di quell’epoca ebbero tutti, a ragione delle stesse diverse condizioni politiche del paese che, quantunque travagliato, visse momenti straordinariamente vividi di unità e di grandezza, una vita intenta nel lavoro più di quanto non fosse possibile da noi.

Da noi il secolo si coloriva più caratteristicamente nella vita delle corti numerose, e in quella adorabile vita provinciale che in ogni angolo trovava a sé stessa una chiusa e un punto di fuoco perfetto.

La tranquilla fervorosità artistica francese, che non perdeva un momento, scindeva esattamente in due parti la personalità degli artisti; una di queste parti era l’anima, che viveva nella sua pienezza le espressioni convergenti da tutto il mondo, e l’altra il cervello e la mano che, in accordo, costruivano materialmente nelle sue linee l’opera dell’ingegno. Nè altrimenti che da una simile pienezza, avrebbe potuto sbocciare un romantico della forza di Eugène Delacroix.

Antonio Canova, vissuto a cavaliere di due secoli, favorito da una fortuna eccezionale per cui non c’erano barriere al suo vagare in cerca di grandi modelli, chè anzi, invece di essergli negata la gioia dello scorrazzare, questa piuttosto gli era talvolta dolorosa distogliendolo dal suo acuto desiderio di continuo lavoro, a contatto di quel Settecento che se non si distinse per opere di scultura ebbe tuttavia una discreta eredità architettonica dal Seicento e una continuazione felice della pittorica Scuola Veneta che si affermò in due uomini differentissimi come furono G. B. Tiepolo e il Longhi, per non ricordare il Piazzetta che, nonostante la succosità calda e intensa della sua pittura a olio è più vicino al Tiepolo di quanto non sembri, il Canova, dicevo, pure attraverso l’intensità del proprio lavoro, potè sentirsi vivere in una atmosfera libera, tranquilla, fuori delle contemporanee urgenze della Scuola Francese e, direi quasi, in una specie di provinciale ozio spirituale, di sognoso vagabondaggio.

Ma nei riguardi del Canova, sospintoci dal 700 con dentro la giovine anima l’immagine già formata del secolo in cui andava a svolgere la parte risolutiva della sua esistenza ... e non vale dire com’egli fosse un innamorato fedele dell’antica Grecia, perchè semmai, proprio in una mondanizzazione borghese dell’arte greca si può ritrovare quello che nel migliore ′800 c’è di più avverato e di più naturalmente odoroso, — nel Canova il gusto della materia non si dissocia mai dal suo intrinseco ideale di bellezza classica, antica e rinnovata, e diventa nè più nè meno che un gesto nell’insieme dei suoi movimenti.

La natura religiosa e fondamentalmente pudica del Canova gli dava una sensibilità che era l’avviamento della sua sensualità; una sensualità dunque che aveva scaturigini pure e che velava gli oggetti della sua creazione di un’attenzione, di una trepidanza, che abbiam visto identificarsi nella sua materia. In ciò risiede anche, psicologicamente, la dedizione di Antonio Canova all’arte greca, che non conoscendo ancora nei grandissimi capolavori gli sembrava, non il vero, ma un modello, una trasfigurazione del vero. Soltanto nei suoi anni più tardi il Canova, trovandosi a Venezia dinanzi al calco dell’Ilisso, diceva a numerosi ammiratori e artisti che l’attorniavano:

«Questa statua rinnoverà la scultura. Io sono troppo vecchio per trarne profitto, ma voi apprenderete da questo torso come la Natura non ha bisogno di esser corretta, e come il bello si trova sempre nel vero. Questo mi darà torto, ma l’arte ci guadagnerà».

Interessante giunge, a questo punto, un raffronto tra il vero considerato in David e in Canova, e il vero considerato in Ingres e in Bartolini, loro succedànei, raffronto nel quale apporrebbe che il Canova e il David, stilizzando meno dei secondi e quasi punto, e rimanendo in confronto del modello in un atteggiamento di commosso rispetto, restassero più degli altri vicini a un vero fotografico senza talvolta riuscire a dare il tuffo di un’umanità profondamente interpretata, mentre che l’Ingres e il Bartolini, stilizzando da maestri, riuscivano a imprimere la più forte impronta di verosimiglianza umana, precisamente in quello che dal modello più si discostava.

Attraverso un passaggio di maniera quasi impercettibile, Ingres e Bartolini si discostano e si riaccostano: il primo dandoci una sensazione di verità raggelata e limitata con un lavoro che è somma di geniale invenzione, il secondo spingendo la ricerca di verità sino a finitezze che terminano a un pollice dal mare ondoso e canoro della lirica pura e quasi ne fanno sentir la musica, con un po’ di immaginazione, alle nostre orecchie umane. Ecco, di Ingres, il ritratto di M.me Frédéric Reiset col suo grande e dolce ovale piegato all’indietro, chiuso dai riccioli morbidi e prolissi quasi fossero usciti dal tornio d’un tornitore distratto perduto nel piacere del suo lavoro, quei riccioli che allungano il senso del viso ovale presentato per più di tre quarti e rendono bizzarramente esile il corpo che è visto di fianco; e l’Odalisca la cui mammella par nasca dal cavo del braccio, e il ritratto di Mme Rivière, semidistesa, le cui pieghe della veste conducono lo sguardo a seguire la ricchezza di una composizione sapiente, incantevole, che maschera dapprima, eppoi ripresenta a un’ultima, vittoriosa contemplazione, la semplicità della postura.

Nei ritratti, la fantasia di Ingres è fervidissima, ed è tutta fondata sullo stile compiaciuto di trattare una figura unica, mentre sminuisce nelle composizioni a più figure, quando cerca di diventare fantasia nell’accezione più comune di questa parola.

Quanto al Bartolini, a illustrare dell’arte sua quella parte che più ci interessa o dove l’estremo scrupolo tocca il soffio dell’arte mi valga l’accennare semplicemente alla figura giacente della Contessa Zamoyska che si ammira a Firenze nella Chiesa di Santa Croce, figura in cui l’estrema pieghevolezza del panneggiato, evidentissima in quanto esprime l’angosciosa morte umana, non diminuisce il senso di superiore mistero sul volto di marmo levigato e lo rende anzi con una forza non dissimile da quella raggiunta nei sovrani modelli dì questo genere di statuaria.

Ho tratteggiato la figura dei due artisti che aprono il diciannovesimo secolo dell’arte figurativa italiana. Mi conviene aggiungere che l’arte loro, pericolosa agli epigoni per la sua naturale inclinazione alla dolcezza ove non si fosse incentrata in temperamenti decisamente geniali, conobbe una successione di scultori di gran lunga inferiore ai maestri, sebbene non privi di sporadiche manifestazioni notevoli.

Ma dopo il Canova e dopo il Bartolini il fenomeno che, storicamente, affiora alla luce, è quello della pittura, arte in seno alla quale versarono abbondante materia d’ispirazione e d’incoraggiamento i politici, i guerrieri e i letterati di questo secolo appassionato.

Stabiliamo subito che la scuola italiana dell’8oo seguì, all’ingrosso, quantunque con spostamenti e ritardi, il corso stesso della scuola francese. Conviene però riconoscere che se da un lato i francesi seppero trarre una grande pittura dai loro neoclassici David e Ingres, cervelli entrambi di veramente formidabile organizzazione, da un altro lato gli Italiani, che non godettero di codesta civiltà, anche nel gruppo che più propriamente vien definito neoclassico, e conta il milanese Andrea Appiani vissuto dal 1754 al 1877 e il romano Vincenzo Camuccini che va sino all’846 e i toscani Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli chiusi, anche loro, dentro la prima metà del secolo, gli Italiani, dicevo, si salvano in virtù di parziali o totali evasioni da quella che avrebbe dovuto essere la formula neoclassica. Mancò ai nostri quel genere di fantasia che diremo amministrativa, consistente nell’aggruppare folle di popolo o di principi con un calcolo sapiente che salvasse a un tempo la freddezza storica dell’insieme e l’artistica consistenza.

Il temperamento caldo, e se volete provinciale dell’Italiano intendeva che dipingendosi, a esempio, una battaglia, avesse a figurare in primo piano l’eroe o il cavallo-tipo, magari un po’ rubenseggiante a invadere la tela con il colore acceso della sua possanza.

Egli non sentiva quella specie di prospettiva superiore, tracciata non soltanto di linee ma di rapporti umani, per cui una folla dipinta, se riesce a vivere in sordina, lontanamente e quasi collettivamente, l’espressione delle sue diverse, innumerevoli personalità, avvera il quadro storico, non in quanto questo quadro riproduce un mero episodio di persone, suscettibile di rientrare nella pittura di genere, ma il dramma di cui è protagonista la folla multanime. Consegnare artisticamente un volto a una folla è lo stesso che imprimere un’espressione a un’opera di architettura, è come passare dai soliti mezzi, o veristici o lirici di rappresentazione, a una sorta di pittura che diremo trascendentale.

In questo campo Louis David è il vero maestro, ed è come pittore di assiemi, che nonostante il suo deprecato accademismo, egli segna un’epoca addirittura rivoluzionaria nella storia dell’arte francese.

Quanto a Jean Dominique Ingres, la qualità della sua fantasia appare di un genere piuttosto diverso da quello di David, e mi pare di averlo sufficientemente adombrato cercando di dimostrare com’egli eserciti le sue qualità fantastiche sui ritratti meglio che noi popolari soggetti.

Chi mi ha seguito nella definizione del quadro storico e nell’attribuzione che di esso ho fatto al David, converrà facilmente con me sulla non esistenza del quadro storico italiano e, direi quasi, del neoclassicismo italiano ottocentesco, in favore di un romanticismo profondamente sentito, e in quasi tutti i tempi, della gente del nostro paese. Prendiamo per un attimo e scrutiamo la qualità dei nostri cosiddetti neoclassici: l’Appiani, che il Foscolo chiamava pittore delle Grazie e che Napoleone prediligeva tra i pittori italiani chiamandolo a compétere nelle gare d’arte con lo stesso David, ebbe una pittura fertile, aggraziata e saporosa, non affatto nazionale come dovrebb’essere una pittura storica o classicheggiante, ma regionale, ma lombarda, con i colori scuri e fondi che distinguono la particolare serietà del suo paese. In questo suo bisogno di grazia che si affida a un soggetto fintantoché questo serve allo sviluppo del ritmo che egli ha sentito nascere dentro la propria anima l’Appiani sbocca spesso nell’affresco decorativo, e poiché nell’affresco, a tanta maggior ragione, egli persegue la volontà, il valore quasi dirci musicale della linea, egli può chiamarsi un romantico, se non dei soggetti almeno delle forme.

Questo per quanto riguarda l’Appiani, nè il Bossi, altro milanese, e unico a potersi chiamar degno di figurare accanto al primo per serie qualità pittoriche, mi distoglie dal mio assunto per virtù di una sua speciale fisionomia. L’influenza di David e di Ingres, che pure ha esistito su questi artisti dato che non ancora la pittura di Gros, di Proudhon e di Delacroix aveva condotto la pittura italiana a espressioni nel genere di quelle dell’Hayez e di Domenico Morelli, ha operato, per così dire, di scancio, vale a dire che ha messo sì, negli artisti, un’idea di compostezza statuaria, ma piuttosto nel senso delle masse che in quello delle linee, e, parallelamente, piuttosto nel senso decorativo che in quello analitico e descrittivo.

E se continuiamo a guardar la pittura di quel tempo, conseguentemente a quanto si è detto sulle diversità esistenti tra David e Ingres, notiamo che semmai più fitte si verificano da noi le influenze di Ingres e le coincidenze con Ingres. Occorre notare che una simile affermazione combatte l’opinione diffusa che una gran parte della pittura ottocentesca italiana, e precisamente quella di cui parlo ora, abbia i caratteri di un freddo e inconcludente accademismo.

Entriamo nella Galleria Pitti e fermiamoci nella sala dell’Iliade. Il soffitto, col trono di Giove, e le lunette che illustrano alcune scene del poema omerico, furono dipinte da Luigi Sabatelli, toscano, vissuto fra il ’772 e l’850.

Sarebbe troppo lungo descrivere partitamente, e il soffitto, e le lunette dipinte nella sala dell’Iliade: dirò che il soffitto, che raffigura Giove nell’Olimpo in atto di comandare agli Dei radunati di non prendere parte alle divergenze fra i Greci e i Troiani, è, nel scuso decorativo, una delle opere più ricche ed equilibrate che si passano immaginare: i nudi vi sono trattati con larghezza e con dolcezza, e i colori, dai toni sempre caldi, cercano e trovano i passaggi e le sfumature in un modo che indica la più assoluta padronanza tecnica del buon fresco moderno cui si richiede la grazia settecentesca dei panneggiati che aderiscono sensualmente al nudo e talvolta, addirittura, esistono per esprimerlo prestando alla carne la lucentezza e il colore di una seta.

In una delle lunette, dov’è rappresentata Giunone che sveglia Morfeo, un genietto recante dei fiori corre tutto proteso in avanti verso il letto del dio e pare che in questa tensione il busto gli sia cresciuto, e pare che nello sforzo del correre le gambe gli sian rimpicciolite. C’è, nell’immagine di questo putto, un po’ del sapore fantastico che Sandro Botticelli ha messo nella ninfa che nella «Primavera» reca in bocca il tralcio di fiori, quantunque trasportato in un luogo più famigliarmente agreste di quanto nel Botticelli non sia, e c’è un’interpretazione dell’anatomia e del nudo scevra di ogni pesantezza accademica e perfettamente lirica. Di più occorre notare come in tutti questi tronchi e gambe e panneggiati degli affreschi sabatelliani si ritrovino gli intendimenti dei pittori del Seicento, o il gusto della vecchia Scuola Veneta, piuttosto che la linearità di quello che avrebbe dovuto essere il neoclassicismo alla David.

Ora, l’aver potuto giocondamente riconoscere la bellezza di Luigi Sabatelli, che ai pregi di Andrea Appiani aggiunge un’umanità anche più ricca di sogetti, ci induce a rifiutare senza grande rincrescimento un affreschista come Pietro Benvenuti di cui la Galleria Pitti ci offre alcuni saggi dove la freschezza delle tinte simile in tutto a quella del Sabatelli, tanto più stupisce quanto meno genialità si trova, andando a guardarle, in queste donne e guerrieri disegnate e composte con appena un banale scrupolo di esattezza.

L’identità della tinta — blù, arancione .. nel senso materiale della parola, aveva potuto farci pensare dinanzi a un medesimo pittore, ed ecco la vuotezza di questa seconda opera metterei anche nell’anima una stupefacente sensazione di vuoto come può avvenire a chi torni, da una città massiccia e monumentale, in una calma e chiara cittadina e non riesca più a vedere nemmeno le case di questa sua cittadina sinché non gli sieno usciti dal cuore e dalla memoria le visioni utopiche del giorno innanzi.

Ho detto che era più possibile ricostruire la storia del diciannovesimo secolo in forma di romanzo che non illustrarla con rigore critico e scientifico. A questo punto mi accorgo che la verità di quelle parole si può intendere in un senso più profondo di quanto dapprima potesse apparire, ché infatti, il romanzo della pittura ottocentesca potrebbe avere ad argomenti, non tanto le vicende e le difficoltà e le passioni umane di quel tempo, quanto la favola che a volta a volta la suggestione dei colori, dei vari deviamenti artistici e delle varie maniere ci potrebbe suggerire.

E’ naturale, per esempio, che se noi riportiamo di proposito, gli sviluppi della Scuola italiana sul modello fisso dei Francesi, i neoclassici italiani restano di gran lunga inferiori a quelli francesi e noi restiamo caricati del peso di molti quadri inutili e oziosi.

Ma se, com’è giusto, e senza tralasciare nessuno dei possibili riferimenti alla pittura altrui, noi tentiamo un ordinamento più caldo e più geniale del secolo nostro, allora vedremo improvvisarsi, dinanzi agli occhi stupiti, un edificio nuovo, concreto, ricco di parti che su altre parti proiettino lunghe ombre e magari le fanne scomparire.

È necessario immaginare una storia direi quasi plastica dell’arte plastica, non per favorire il ritorno di un giudizio che abbia per base e per vertice la pittura pura, la materia pittorica, ma con la cortezza che i valori riemergenti da una bruciante fusione di tutti gli elementi appariranno in ultimo, e anche nel senso umano, più vivi e più chiari. Il neoclassicismo italiano, mentre ha una vita effimera tanto che sorci tentato di chiamare romantico il Sabatelli, ha d’altro canto propaggini avanzatissime, dato che un secolo, come termine di tempo, appare una ristretta unità di misura potendo contenere appena due o tre generazioni di artisti le cui tendenze devono per forza nascere a metà corso delle precedenti e vivere con esse in antitesi e parallelamente.

Ora, se riflettiamo che il Canova e il Bartolini, con la loro grandezza isolata e un po’ fuori epoca, dopo aver dato al principio dell’8oo una luce di riviltà epperciò un senso di durata, si sono staccati da tutte le manifestazioni posteriori con una specie di linea di demarcazione addirittura abissale, e se riflettiamo che l’8oo si chiude coi nomi di alcuni grandi artisti capaci di crearvi d’intorno per sè soli un altro grande spazio di influenze, di ammirazioni, di sensibilità nuove — intendo alludere sopratutto a Giovanni Fattori e a Giovanni Segantini se riflettiamo tutto questo sentiamo il bisogno di sgombrare rapidamente il campo di tutti quelli che poterono essere i primi rappresentanti o gli epigoni del neoclassicismo.

Tra questi, di Vincenzo Camuccini, romano, che appartenne al primo gruppo, mi contenterò di riferire alcune parole che intorno a lui scrisse Francesco Hayez nel libro delle sue memorie:

«Nome celebre in quell’epoca e che meriterà sempre di esserlo, dirò che era serio nel comporre, purgato nel disegno, imitando spesso nello stile Raffaello, cosa assai lodata in quell’epoca: il suo colorito non era molto vero, specialmente nelle ombre, e alquanto duro»

Di un altro, e cioè di Giuseppe Bezzuoli, diremo come il suo quadro grande di maggior fama sia l’ ingresso di Carlo VIII in Firenze, macchinosa pittura di gran mole e di facile accesso nella memoria del gran pubblico, sulla quale, con poche altre, si è formata la superficiale e cattiva nomèa del nostro Ottocento.

E con la tela del Bezzuoli come non riporre i grandi quadri del livornese Pollastrini, al quale, la città nativa ha fatto più onore che al Fattori, ma il cui merito principale fu inerito d’insegnante, largamente comprensivo dei bisogni di libertà spirituale dei giovani artisti, disegnatore corretto d’altronde, e talvolta pittore interessante di teste e profili; e la Cacciata del Duce d’Atene da Firenze di Stefano Ussi, e l’ Ecce Homo di Antonio Ciseri?

Di quest’ultimo conviene dire che due grandi quadri gli dànno il diritto di annoverarsi tra i boni compositori italiani e non solo del suo tempo; il Martirio dei Maccabei visibile nella chiesa fiorentina di Santa Felicita e il Cristo portato al sepolcro, dov’è ammirevole il senso di elastico e legatissimo snodamento che dal gruppo delle donne seguenti il breve corteo dietro la testa del Cristo, chiuse assieme in una sagoma frastagliato e vibrante che richiama allo spirito quella meravigliosa nel gruppo delle tre Marie che sovrastano la Deposizione caravaggesca, continua nel corpo del Cristo e nel gruppo degli altri portatori.

Gli atteggiamenti di queste donne sono colti sul vivo con felice ispirazione e gli scorci trattati con una secentesca liberalità di colore e di segno.

Ed ecco, ognuno di quei pittori cui abbiam tolto d’innanzi il quadro aneddotico o storico dov’era certo di avere impiegato la parte più ghiotta dell’arte sua, sino a nascondervisi beate in attesa della gloria eterna, riaffiorare con la produzione numerosa di chi, per destinazione, doveva seriamente e fruttuosamente lavorare.

Questa produzione numerosa, inedita, che in questo punto sale ora in un tratto e dilaga gorgogliando è il ritratto italiano dell’8oo, dove i nomi più belli si mescolano onorevolmente ai minori in una vera configurazione di artistica civiltà.

Raffaello Fraschi


Piero Gobetti - Direttore responsabile

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