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il baretti 43

Del teatro italiano.

Quando il giovane Silva giunse dal Lembo lo trovò intento a pigiar volumi in una valigia sconquassata. Il Lembo, prossimo alla quarantina, era redattore di un quotidiano della sera, quasi ogni due mesi mutava camera d’affitto ed era fiero di un vecchio bastone d’ebano dal manico d’argento.

— Domani trasloco — annunciò al Silva. — Salirò a un quinto piano, vicino al fiume. Oltre a una microscopica camera là avrò il diritto a deambulare su di un’immensa terrazza. Verrete a trovarmi.

Il Silva annuì. Era timido e biondo. In quei giorni lisciava la stesura definitiva del suo quarto dramma: quando fosse giunto al settimo avrebbe tentato di farselo rappresentare. Era anche giunto al secondo romanzo, all’undecima novella e al suo ventitreesimo anno d’età. Ma per ora concedeva a qualche rivista soltanto qualche colonnina di critica propiziatrice.

— Sulla tua terrazza raduneremo gli amici: potrei leggere il mio dramma.

— Volentieri, caro. Ma di giorno c’è un sole equatoriale e di sera un buio pesto. Vedrai tu, insomma. — E il Lembo si strinse nelle spalle buttando a terra dei polverosi cumuli di fascicoli: — Ecco ai tuoi piedi, o drammaturgo, il nuovo teatro italiano.

— Non in tutti questi ultimi numeri di «Comoedia» c’è La pagina dell’ editore. Peccato. — disse il Silva. - E’ come essere accolti in una vecchia casa amica da un gelido maggiordomo: e il padrone ci sorride chiamandoci con un nome che non è il nostro e neanche arrossisce, dopo, dell’errore. Anche la copertina s‘è attenuata di colore, da rivista che non ha più bisogno di chiassosi richiami; e il vecchio fascicolo dalla carta spugnosa è divenuto l’agghindato organo ufficiale della Casa Editrice Mondadori e del teatro italiano contemporaneo.

— Il fortunato editore forse non immagina come indici e sommari delle sue riviste possano un giorno servire allo storico che indaghi quest’agro periodo della letteratura italiana. Ben si potrebbe dire che le edizioni di «Novella», l’altro diffuso magazine letterario del Mondadori, sono due: quella comune che si trova in ogni scompartimento ferroviario e un’altra in battute che si chiama «Comoedia» e che non è meno diffusa e significativa della prima. Questo nostro teatro minore, sulla cui quantità molti sperano o affermano feconde rinascite, altro non è che una serie di novelle dialogate — se per «novella» si intende il banale scampolo di cronaca rarefatto evanescente o concentrato sino a mozzare il respiro secondo il «taglio» per le singole riviste e per i quotidiani. Variano la conoscenza del mestiere e l’abilità nello sfruttare le doti dei nostri migliori attori, ma l’origine è comune: barbagli di balletti russi, la battuta alla Shaw, le luci psicologiche e la tormentata frigidità pirandelliana cui s'uniscono echi di Cècof, la radiotelefonia e le avventure di Charlot. E sono i nostri «novelieri» e giornalisti del novecentodieci, i giovani e i giovanissimi d’allora, quelli che oggi stanno edificando il nostro teatro minore, quell’hummus benefico dal quale rampolleranno, secondo te, le quercie e l’alloro.

Il Silva rimaneva sempre come un po’ interdetto per il gran gesticolare del Lembo. Si lisciò i capelli, si fece crocchiare due nocche; poi, ammise:

— Purtroppo per molti dei giovani che scrivono o s’accingono a scrivere delle battute i classici incominciano dal Rosso e dal Crommelynek e le loro severe leggi di stile e di tormento anteriore sono il riuscire ad armonizzare scorci e finali purché vengano a respirare in quella certa atmosfera teatrale che è ossigeno ai comici raminghi e all’impresario diffidente. Ma oggi c’è maggior dimestichezza col teatro; e l’unica vittòria dovuta al fallimento di molteplici tentativi (in un certo senso anche di quello pirandelliano) è stata la scomparsa di parecchi pregiudizi intorno al teatro — il cui boccascena non è che una cornice per il quadro che all’autore piacerà di delincare. Oggi il teatro italiano ci appare come in una pausa tra uno sforzo e l’altro d’uscire di minorità.

— Tu speri nell’opera tua e dei tuoi colleghi — sogghignò il Lembo. — Se il nostro teatro non è più che il dominio borghigiano di uno difficile oligarchia, come nei primi del novecento, non ha ancora quel vasto orizzonte che molti già s’illudono di scorgere. Oggi noi siamo nel primo periodo dell’industria organizzata successa al lavoro casalingo e di bottega. Quello che ci era parso incredibile sforzo e sogno di potenza si rivela per quello che è: una modesta fabbrica alla periferia d’una città provinciale; e, forse, ci si è buttati un po’ allo sbaraglio sulle orme dell’insperato successo pirandelliano.

— Tra non molto potremo forse considerarlo come un precursore o come l'esasperatore di tutto un periodo che non ha la compattezza dell’espressionismo tedesco; ma nessuno di noi giovani non potrà dimenticare chiaroveggenze talvolta febbrili in battute squadrate da un ottimo artefice — e la commossa speranza che i Sei personaggi avevan saputo darci, la gratitudine per il nuovo poeta, il primo poeta del nostro tempo, che già canuto si rivelava! Soltanto dopo la farsa metafisica di Ciascuno a suo modo siamo come quando rimangono accese soltanto le lampade nei corridoi, qualche poltrona già appare incappucciata, e si presente filtrato dal lucernario, il grigiore dell’alba che verrà. Anche quella «novità» non ci ha sorpresi che col primo atto e qualche scena del secondo: e non è nel maestro o nei suoi scarni seguaci che si debbano riporre le nostre speranze migliori.

— Beato te che nelle tue speranze puoi scegliere! Oggi si sta imparando a far del teatro. Non si temono insuccessi e non si sognano trionfi. Oggi s’impara il mestiere: e dopo tanto macinìo di colorì e stender di tele forse scorgeremo finalmente uno studio o addirittura un quadro dinanzi al quale dovrà soffermarsi il passante sbandato. Ma per ora le sorti di questo nostro teatro minore sono indissolubilmente legate a quelle degli abiti delle attrici che sorridon nella pagina di fronte, lievemente arcaici dall’una all’altra stagione. Guarda.

Aveva preso un vecchio fascicolo a caso, l’aveva aperto e dal lucore d’un foglio patinato eran balzate candide le spalle di una nostra attrice, allora bellissima: ma per degli inverosimili sbuffi di velo che le incoronavano eran come quelle di una malinconica statua gessosa.

— Vedi! — soggiunse. — Questa è la «novità» dell’oggi. Come la vedremo tra pochi mesi, quantunque gli articoli che il catalogo «Comoedia» offre sian giù stati sperimentati con un esito discreto e, in genere, siano garantiti per un anno? Anche l’intelligente cosmopolitismo della rivista è forse dovuto all’impossibilità di poter avere avvenimenti italiani e passabili commedie italiane ogni quindici giorni: onde quelle provvide parentesi che ci fan rileggere, ogni tanto, Shaw o Andreiev o ci offrono, lieta primizia, Crommelynek. Mio biondo e giovane amico, il teatro italiano d’oggi è quello di ieri e dell’altro ieri: ha allargato le sue file, è divenuto facilmente ospitale se non cordiale: è più colorato senz’avere una nuova fisionomia.

— Ma in tutti questi tentativi non vedi nulla che ti faccia...

Il Lembo si tolse le lenti passandosi uno mano sugli occhi. Il suo viso senz’occhiali era più nudo e sofferente. E con un risolino accompagnato da un palpitar di palpebre spaurite riprese, calmo, ciondolando le lenti tra l’indice e il pollice:

— Io vedo, nella stessa bottega, dietro il bancone, due sarti che sanno il loro mestiere e ai quali molti dei nostri autori ricorrono per qualche abito o per qualche rattoppo. Sono Chiarelli e Zambaldi. Talvolta, qualche giubba dell’uno va a finire tra i panciotti dell’altro, triste conseguenza del doversene stare al ristretto - essi, ottimi amici, che in pubblico devon guardarsi un po’ in cagnesco. L’uno s’accampa prepotente rìnnovatore, fondatore nientemeno che d’una scoletta; mentre l’altro è beato della sua bonomia, amico delle vecchie dame che amano il sorriso pacato di dietro l’occhiolino e la compiaciuta indulgenza per le scorribande della gioventù. Se Chiarelli ti porterà tra gentiluomini frenetici per impossibili scalate a diafane scale di seta, tra un crepitio di fuochi d’artificio, Zambaldi ti farà conoscere dei galantuomini che si sveglian con gli occhi pesti per mia banale avventura: e se tra i primi t’introdurrà un’attrice consumata o un’avventuriera d’altissimo bordo, tra i secondi ti guiderà una collegiale mi po’ maliziosa e stucchevole. I personaggi di Chiarelli sono le silhouettes dei gentiluomini di Bragaglia, sullo sfondo di una caccia alla volpe e di una casa cinematografica in crisi; mentre i personaggi di Zambaldi sono le silhouettes dei galantuomini del Cova, sullo sfondo di una prima alla Scala e del circuito di Monza.

— Ma tu vorresti ridurre tutto il teatro italiano a questi due nomi?

— Zambaldi è uno degli artisti più rappresentativi del nostro tempo — oneri gravemente il Lembo godendosi la contegnosa indignazione del Silva. — Giovani scavezzacolli preoccupati passano sotto le insegne chiarelliane, arginati dal sergente maggiore Cavacchiodi e dal caporale Rossato; mentre bonariamente guidato da Zambaldi un gruppo volonteroso segue in ordine sparso, dal modesto Sorretta al rassegnato Veneziani, dal flebile Giorgerì-Contri al buongustaio Testoni e al perseverante Berrini. Un po’ appartati con dignitosa compostezza guardati passare le due schiererò Civinini e Simoni, Tocci e Calzini, mentre Borgese Olimpico di tra una nuvoletta e l’altra corrusco sbircia dall’empireo. Infine, se a «La donna di nessuno» è seguita «La buona novella» Rosso ha invano tentato di avallare con parecchie altre firme la lontana cambiale delle «Marionette» e Ratti, dopo aver col «Giuda» dimostrato fecondo il suo silenzio di questi ultimi anni, col «Bruto» ha già tralignato. Ancóra non ci è tenuto da un giovane italiano un «Paquebet Tenacity» a un «Pecheur d’ombres»; e invece di buoni volumi di teatro noi abbiamo un’ottima rivista teatrale, forse fin troppo accurata.

— Insomma per te il teatro italiano d’oggi è una lauda desolata.

— Press’a poco, caro, press’a poco. E dev’essere una ben dura malinconia il doversene occupare — soggiunse il Lembo dimenticando per un istante i suoi annosi maneggi di redazione per riuscire a soppiantare il critico drammatico.

Il Silva stette pensieroso alcun po’. Gli veniva alla mente il finale del suo terzo atto, la mani bellissime della Sani, la piccola attrice che al mattino era stata inseguita dal Lembo, le cui parole gli parvero arbitrarie. Già, in lui, era sempre mancata ogni seria preparazione: e chissà quante e quali commedie ammuffivano nei suoi cassetti.

Sulle ginocchia del Silva erano alcuni fascicoli di «Comoedia», tra i primissimi: e come lontano gli apparve il novecentodiciannove in quei fascicoletti color mattone sbiadito che ospiti mediocri e cordiali ogni quindici giorni avevano anche’essi scandita la sua vigilia! Quante «novità» annunciate e mai sorte, che malinconia in questo viso prepotente e volgare di meridionale che ti fissa il fotografo con quegli occhi fondi di languore mentre t’annnncia d’aver ultimato la terza sua commedia «per una primaria compagnia»; o in quest’altro nome armonioso, tra due titoli in corsivo e il nome d’una cittaduzza di provincia, dove la stampa di quelle tre righe avrà scatenato orgogli furibondi e livori senza fine, autore che oggi trascinerà la gloria di quelle tre righe come un rimorso, schiacciato dalle seicento lire mensili di stipendio: uomo che in un altro ambiente e con un po’ di scaltra sfrontatezza sarebbe forse riuscito a comprarsi un abito bell’e pronto.

Ma un giorno scriverò l’elegia di coloro che sognarono d’affacciarsi e che poi si ritrassero: questi, veramente, per timida povertà puri di cuore — si propose il giovane Silva mentre, lasciata la casa del Lembo, gli giungeva il primo senior di gaggie dal parco che stava per attraversare lungo il fiume.

Mario Gromo.


Aspetti del nuovo Mac Orlan.

Che lunga strada ha dovuto percorrere Pierre Mac Orlan prima di incontrar sè stesso (domanda importante: l’ha incontrato? Pare di si, ma la risposta la può dar solo il futuro), prima di riuscire a scovare il proprio metro quadrato di terra su cui star solidamente, con gli occhi fissi sul mondo. Ed è giusto osservar che nessuna esperienza è stata inutile per lui, poiché sussistono e agiscono fin negli ultimi suoi libri le qualità che — nell’andare avanti — ha saputo riconoscere, far parlare.

Prima di tutte fu la leggenda dell' umorismo: imperturbabilità britannica a tutto spiano, fumisterie di Allais spinta al parossismo, — ma più che altro umorismo acerbo nello stile non nella sostanza. Furono i tempi dei Contes de la Pipe en terre: ma già da allora cominciava ad alitar lo spirito d’avventura, — deformato dalla caricatura, spesso atrocemente, — ma sicuro, vitale, evidente, nella favola di Jacob Cow, pirata, poi in quel capolavoro di poesia in maschera ch’è La Maison du Retour Ecoeurant.

Fin qui lo scrittore aveva camminato senza aiuto di pietre miliari, di lontani projettori: sapeva trovar la strada giusta, — ma era lunga, lunga la strada fino alla maestria. Occorreva riuscire a scendere in fondo a sé stesso, riconoscersi: non era impresa di poco conto. Per questo punto di vista son preziose le spiegazioni che é lecito legger nel Manuel du Parfait Aventurier: presentito in sé stesso quel certo spirito d’avventura, Mac Orlan, avventuriero «passivo», per aiutar la propria evoluzione accettò il consiglio che potevan dare alcune opere caratteristiche, di Schwob, di Stevenson, di Hoffmann e degli ultimi romantici tedeschi, s’arricchi della sottile poesia nascosta in quegli scrigni di bellezza che son le memorie del cavaliere di Oexmelin, i libercoli di gergo piratesco, i documenti che restan su gli usi e costumi degli abbronzati bucanieri. Una splendida messe d’opere che ascendeva» verso maggior compiutezza artistica fu risultato di questo secondo periodo: Le Chant de l’ Equipage e A‘ bord de l’Etoile Matutine, la Chronique des temps désespérés e Malice. Ben riassume i caratteri di codesto germoglio la magnifica acquafòrte di Le Nègre Léonard et Maitre Jean Mullin, sostenuta da due temi, lirico e umoristico, che riescono a fondersi assai finemente, come poi in Malice.

Ma già in Malice appaion le nuove preoccupazioni di Mac Orlan.

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Le ultime righe di Malice svelano quello che Mac Orlan ha scelto come suo definitivo campo d’azione; convien citarle: «... Tutti noi non camminiamo più sotto la chiara luce dei giorni antichi. Un ambiguo chiaror di crepuscolo bagna le nostre azioni più banali e ognuno costruisce il proprio avvenire su sabbie mobili . Degli imponderabili... veston d’inesattezza le parole internazionali. Il mondo accetta la sua fine sotto forme varie che i giornali commentano. E qua e là la carne ogni giorno divien più abile nell’esaudir sè stessa. L’intelligenza umana ronza come l’elettricità in un contatore. Abbiam forse superato i limiti leciti? Abbiam forse toccato le ultime mète che ci furon date? O elegante putredine! La nostra umanità si decompone come il fiore inclinato nella scena incivilita dei grandi vasi. La forza che ci anima non corrisponde più alla debolezza del nostro motore cerebrale. Ognuno porta in sè elementi artificiali... e affonda in un sonno agitato. La fine d’una civiltà che ritorna verso le feconde orìgini, può esser concepita solo come una festa che s’indugia, mescolando le fanfare varie e i fuochi multicolori della Fiera di Neuilly con ì segreti giochi delle carni popolari e borghesi, quando l’Europa intelligente s' addormenta, con tutte le luci spente».

Dipingere questa «elegante putredine» sarà uno dei temi dominanti nell’ultime opere di Mac Orlan; imaginar le conseguenze, crear la nuova leggenda, scrutar nel futuro sarà l’altro tema, il più importante. Malice, A’ l'hòpital Marie-Madeleine (in un certo senso), Les Pirates de l'avenue du Rhum, Lumières de Paris risponderanno al primo tema, quasi parentesi, intermedii fra gli affreschi magistrali della trilogia iniziata con La Cavalière Elsa e La Internationale, cui seguirà il prossimo Quai des Brumes, svolgimento del secondo tema: gli uni e gli altri dominati dalle due vivaci epopee de L’inflation Sentimentale e di Simone de Montmartre.

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Nei suoi primi libri Mac Orlan non teneva conto del fattore tempo: scaraventava i suoi eroi verso tutti i punti cardinali, permetteva — aiutandoli — che caracollassero dal sud al nord, dall’est all’ovest, ma li liberava dall’ingrato giogo del tempo. Poca influenza hanno i tempi della guerra su l’aventura del Chant de l'Equipage, valgon solo per situare il libro, senza agir su le pagine di esso; il presente di Le Rire Jaune e de La bète conquérante non fa parte dei motivi centrali di codesti due racconti sorretti da paradossi e da caricature; e così le gioviali storie dell’ U. 743 o le pagine su la guerra di La Fin non sono influenzale dai fenomeni sociali che descrivono.

Dal 1921 in poi Mac Orlan cominciò ad innestare i suoi libri sul ceppo del tempo, a conformarli anche — e specialmente — secondo le vicende sociali e politiche dell’universo: cominciò nella sfrenata sarabanda de La Cavalière Elsa. Negli altri libri si curò specialmente di osservare i tempi: così nel poemetto di Simone di Montmartre e nelle ultime Lumières de Paris dipinse l’odierno volto di Parigi, il più misterioso e il più vero. Fra i primi egli s’è accorto del momentaneo — forse — fallimento della poesia lirica, ha saputo indovinate il prossimo avvento dell’epica: tutti i suoi ultimi libri, più che romanzi son poemi epici volti a scoprir l’essenza del nuovo misticismo sparsosi nel mondo; in Malice e ne L’hòpital Marie-Madeleine l’epopea, sebbene sia esageratamene nascosta, esiste.

Due cause scopre in fondo a codesto nuovo misticismo: prima la donna.

«Venere inquieta accosciata su l’Europa, salve,
sgualdrina nuda, simile alla Torre Eiffel.
Ebrea nell’istesso tempo slava e sassone,
bella come un bimbo commestìbile
con la tua salute moderna di macchina nuova
O Venere! e le lue sorelle fatte a serie
dalle nuove fabbriche letterarie dell’Europa!
Da buoni intenditori vi salutiamo, o sgualdrine

(d’acciaio


e vi raccomandiamo la nostra delicatezza
O Veneri Pandemie!
ispiratrici provvisorie dell’anno 1922».

Tutto il poemetto de L’inflation Sentimentale si prosterna sanguinosamente ai piedi di codesta donna: esclama si con uno scatto di sarcasmo:

«E’ stato dunque a gloria delle sgualdrine cere-
quelle di Berlino W, (brali,
quelle della Fifth Avenue...
che una di primavera....
avanzavamo, o Agrippa d’Aubignè! come
fantasmi fra i morti,
alla conquista di un vecchio albero tragico
raffigurante una forca con un’anima di bimbo ...»

Ma subito l’occhio epico del metereologo, imparziale e appena ironico, ha di nuovo il sopravvento: dipinge, senza giudicare.

Malice sarà un esempio dell’idea espressa ne L’inflation Sentimentale ; il ritratto di Loulou la Bavarese, nell'ambiente della Germania in putrefazione, accanto al francese Jean Saint-Jeròne, divorato dalla donna, di cui é complice il fantoccio chiuso in un pacchetto e impinguato dai marchi di carta straccia. Qui la donna domina, — e dominerà ancora ne La Cavalière Elsa, ne La Vénus Internationale: ma alternata alla grande visione epica dell’occidente invaso dagli uomini e dalle idee dell’oriente, — altra possibile causa del misticismo nascente, secondo Mac Orlan.

Fra questi libri il reportage su Les Pirates de l’Avenne du Rhum é un à-còté, un quadretto secondario: la Francia in Simone de Montmartre e in Lumières de Paris, poi — assieme alla Russia — ne La Cavalière Elsa, ne La Vénus Internationale, la Germania di Malice e sono terre vecchie, alla fine della civiltà. Il popolo giovane e corrotto dall’America risusciterà i costumi pirateschi in pieno XX° secolo, per l’astuto contrabbando degli alcool: per forza questo fatto doveva ispirare Mac Orlan, amico di tutti i fuori legge. Descriverà le costumanze dei nuovi corsari yankees: e Les Pirates de l’Avenue du Rhum che a prima vista non sembrano avere nessun nesso con le altre opere recenti di Mac Orlan, mostrali forse quella che sarà la direzione verso cui — dopo aver dato conclusione all’epopea della e elegante putredine» — potrà volgersi l’occhio di questo scrittore.

•••

La Cavalière Elsa e La Vénus Internationale, nell’opera di Mac Orlan, sono i due libri più originali, rivelanti nuove costruzioni, miglior conoscenza di sé stesso. Se altrove gli aveva giovato l’esempio d’altri poeti per riuscire a ben comporre le opere, qui non é possibile scorgere atteggiamenti che svelino l’azione sussidiaria di influenze. Il colore e la perversità di Schwob, l’alito di poesia romanzesca di Stevenson, il romanticismo volto a straniarsi in umorismo macchiato di follia, caratteristica degli Hoffmann, Chamisso, Achim d’Armin, — non li ritroviamo più in questi due libri; né è lecito parlar di Conrad, — lontanissimo dalla concezione poetica di Mac Orbo.

Questi due libri son tremendamente originali: il primo, La Cavalière Elsa, é una specie di prefazione all’altro; meglio composto, più colorito, — ma ricco di poesia meno profonda. Non si può più cercare — in essi — lo spirito d’avventura: obbediscono a necessità che trascendono il campo dell’opera imaginata per divertire. Elsa Grünberg é la donna d’oggi, — la donna cui vuol cantare un inno L’inflation Sentimentale, — ma é anche e soprattutto la slava ebrea. Vaso di Pandora, — lei, alla punta estrema delle avanguardie dilaganti dall’est, porta in sé tutti i flagelli e tutte le morti: l’esempio di Wedeckind deve avere influito su l’opera di Mac Orlan. Ma in lei esiste anche la nuova luce: non s’ingannan Falstaff e Amleto, i due capi, che la seguon, la vogliono assieme a loro, dinanzi alle orde barbare e corrotte. Chi s’inganna é Bogaert, il francese: che, trascinandola verso l’amore occidentale, ucciderà sè stesso e lei; per questo aspetto è significativo l’ultimo capitolo, poema delle seconda — vera — morte di Elsa.

Nella Cavalière Elsa è in germe La Vénus Internationale: il mondo squartato — nessuno se ne accorge — dai più tremendi terremoti che mai sian stati, assomiglia ad Amleto, l’obeso esteta, «reincarnazione del personaggio shakesperìano ch’egli era riuscito a ottenere con l’aiuto dei libri». Sul mondo la morte di Elsa cadrà come — su la neve — un petalo di rosa rossa: sarà leggenda.

Giunto a questa conclusione Mac Orlan non poteva fare a meno di comporre La Vénus Internationale, romanzo della costruzione poetica: più difficile, perciò non armonioso come La Cavalière Elsa; ma quanto più originale. Una donna, naturalmente, al centro della narrazione: Claudia di Fiandra, messaggera dei nuovi destini e della nuova poesia. Bisognava, attorno a codesta vestale, imaginare e descrivere le vibrazioni conclusive della crosta terrestre, — ma lavorando sul piano della realtà, e non dell’arbitrio come ne La Cavalière Elsa. Nicolas Gohelle, scrittore seppelitosi in fondo a una provincia francese, creerà nella sua stanza più buia le leggende del nuovo universo: Claudia le trasmetterà al mondo, camminando per le strade delle campagne. E gli uomini della campagna più forti dei cittadini, i vecchi divorati dai giovani, gli artisti i poeti gli intellettuali, i famelici malgras, — questi saranno i più veri protagonisti del libro.