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il baretti 63


SCENOGRAFIA

CRAIG

«Un direttore colto, ma non artista, è inutile in un teatro quanto un carnefice in un ospedale. Egli pretende nientemeno, che l’artista si limiti ai rapporti di altezza o di superficie segnati da lui!

Per una scena di porto, a mo’ d’esempio, vuol esporre in uno spazio ridevolmente angusto le rocce, le navi, la città, le case, il ponte di sbarco. L’attore deve, poi, agire in mezzo a tutta questa roba. Un personaggio deve imbarcarsi, un altro sbarcarsene sulla roccia. Questo quadro sarà per forza irreale, se si pon mente agl’inverosimili rapporti di misura che occorre attribuire ad ogni cosa perchè trovi posti in iscena.

Nel Vascello fantasma la scala arriva a metà della nave che sta dietro. La città è situata a cinquanta centimetri oltre il tetto delle cave. La cima delle montagne alla stessa altezza degli alberi della nave».

Cosi Eduard Gordon Craig.

Ed ancora:

«Il direttore chiede una foresta: il trovarobe gli porta la foresta, albero per albero, eceo il nostro uomo raggiante. Si scalda la testa e corre la città con i bozzetti o il solino di celluloide, stepitando: «Venite, venite a vedere la mia messinscena. Non s’è mai vista una cosa simile! La natura non potrebbe far meglio!»

Il direttore dice, poi, agli attori: «Camminate in questa foresta come persone ordinarie, siate naturali». Applaudisce l’artista che cade da una sedia inciampa in un tappeto, o grida: «che meraviglia di naturalezza!» A Londra, se un direttore ha bisogno di soldati, chiede gli uomini a un reggimento e li veste con un costume storico; non gli verrebbe mai l’idea di fermare il suo corpo di comparso, Perchè cercare di meglio di un vero soldato?»

Questo realismo non ha nulla di comune con l’arte. Il realismo finisce nel comico, nel music-hall, nell’anarchia.

Dunque: lo stile.

Ed una scuola.

«Ecco il progetto che vogliamo attuare: noi fonderemo, con capitali di tutti gli «amici» del teatro riuniti in «Società», una Scuola fornita di quanto è necessario alla scena e due teatri, di cui uno all’aperto. Adopereremo questo due scene per le nostre esperienze; sull’una o sull’altra, talvolta su entrambe, saranno provate tutte le teorie. I risultati di queste esperienze: note, disegni, fotografie, documenti fotografici, cinematografici non verranno pubblicati e serviranno soltanto ai membri della Scuola. Avremo strumenti per studiare, e produrre, il suono e la luce, come anche altri per studiare il moto. Vi sarà una stamperia, tutti gli utensili da falegname, una biblioteca completa. Noi faremo esperienze nel teatro, come il chirurgo nella sala anatomica. La nostra Scuola ci permetterà di studiare le tre fonti naturali dell’arte: il suono, la luce, il moto; cioè: la voce, la scena, l’azione».

Il direttore di teatro è uguale al direttore d’orchestra. Tutto dipende dalla sua bacchetta.

Perciò:

egli farà, prima, eseguire le scene o i costumi

poi, distribuirà le parti agli attori cho ne impareranno il testo prima di faro anche una sola prova

in seguito, provvederà alla illuminazione per creare un legamo armonioso fra il costume la scena o il poema

e, sopratutto, non copierà la natura: la interpreterà.

Anche per intendere l’arte di Gordon Craig gioverà un saggio di messinscena.

MACBETH

Dove si svolge l’azione? In che guisa compiamo l’ambiente? Vedo due cose: una rupe o la nebbia che ne fascia la cima. Cioè una rocca di guerrieri, una spelonca di fantasmi. L’umidore, col tempo, roderà il picco, gli spettri bandiranno gli uomini. Mettete una rupe, fatela salire o nascondetene la cima nella nebbia. Otterrete la riproduzione esatta di quello che avete immaginato.

Che forma avrà questa rupe! Ricordate le linee di un’alta montagna e indicatele: i dettagli importano poco. Non temete di farla salire molto in alto; non sarà mai troppo. Sappiate che su di un pezzo di carta potete disegnare una linea che s’elevi per più leghe; lo stesso potete fare sulla scena: è tutto un problema di proporzioni. Che cosa suggerisce Shakespeare? Non guardate prima la natura, cominciate con interrogare il poeta. Vi sono duo toni, uno pel il picco, l’uomo; l’altro per la nebbia, il fantasma. Non aggiungete altri toni nell’esecuzione dell’insieme di disegni per i costumi e le scene. Modulate soltanto nelle due note.

Ma oltre la rupe e la nebbia sono altre cose da considerare. Bisogna por mente che alle falde di questa roccia brulicano le forze terrestri e che nella nebbia si celano gli spiriti innumerevoli. Per dirla più tecnicamente, voi devete pensare a sessanta o settanta comparse che debbono muoversi nella parte inferiore della scena e ad altri personaggi che non possono appendersi a fili di ferro e che tuttavia convien distinguere chiaramente dagli esseri umani e più materiali. E’, perciò, necessario creare in qualche punto una soluzione di continuità, molto evidente allo spettatore. Ecco come vi perverrete: i sogni e le proporzioni hanno suggerito la consistenza della roccia, il tono e il colore — un sol colore — daranno l’aspetto etereo della nebbia. Intanto, conducete in basso questo tono e questo colore, quasi a livello del suolo; ma abbiate l’accorgimento di condurli sopra un punto distante dalla massa rocciosa.

Volete che vi spieghi tecnicamente quello che intendo? La vostra rupe non s’innalzi che a metà della scena, sia il fianco di un gruppo di monti traversati da molti sentieri che confluiscono in una piattaforma la quale occupi la metà o i tre quarti della scena.

Avrete, cosi, abbastanza spazio per tutto le comparso del lavoro.

So bene che non siete ancora convinti di questo sogno e di questa nebbia, so che pensate a quanto verrà più tardi nell’opera, specialmente molti «interni», ma non vi preoccupate: ricordate che un castello è fatto di materiali presi in una cava. Non è lo stesso colore per cominciare? i grandi colpi d’ascia sulla pietra non danno a ogni masso un tono che somiglia quelli che produco la natura: pioggia, gelo o folgore? Dovrete, dunque, trovare solo qualche variazione dello stesso tema: la rupe, nero — la nebbia, grigio — custodendo l’unità in virtù di questo metodo.

Il successo dipenderà dalla valentia nel creare variazioni su questi due temi: ma ricordate che non bisogna mai allontanarsi dal tema principale dell’opera, per cercare le variazioni. Con la scena otterrete i movimenti indicati dagli autori e dovrete perfino accrescere «l’impressione» del numero senza aumentarlo.

Potrete suggerire alla scena tutto quello che esiste, la pioggia, il sole, il vento, la neve, la grandine, il caldo intenso; ma non perverrete mai ad imitare realmente la natura.

Potete suggerire con il movimento la traduzione di tutto le passioni ed i pensieri di una folla e con lo stesso mezzo aiutare l’attore a riprodurre le passioni ed i pensieri della parte che deve rapresentare; ma sono inutili i dettagli.

Se volete anche disegnare costumi, non ispiratevi a libri speciali: lasciate correre la vostra immaginazione, vestite i personaggi secondo la vostra fantasia. Non importa se al principio commetterete degli errori.

Per giudicare l’effetto delle masse, che è fra le cose più importanti, guardatevi dal considerare, come fanno tutti, i costumi singolarmente ».

E. P.



APOCALISSI DEL VENTESIMO SECOLO

E’ ben strano che uno scrittore cattolico riesca convincente appunto per le idee politiche che proclama, per il regime d’ordine e di gerarchia che propugna anche ora che ben conosciamo che cosa significhi tutto questo nella realtà. Pure G. K. Chesterton minaccia di persuadere: ed almeno addita al nostro invincibile liberalismo un altro orizzonte che non manca d’apparirci luminoso benché diverso.

Ma il Chesterton parla in paese anglicano: la sua concezione cattolica è quindi concezione di ribello, autonomia e distinzione. Concezione infine liberale, almeno in quanto si oppone ad una religione di stato ed all’oppressione dell’opinione pubblica anglicana che deve riuscire particolarmente seccante, poiché accomuna (come disse uno scrittore inglese) i diciannove ventesimi dell’umanità sotto la denominazione di heathen, pagani e miscredenti.

Possiamo scusare l’entusiasmo cattolico del Chesterton perché gli manca la nostra esperienza (non rosea) del Cattolicismo in fiore e potenza. E lo guardiamo con una lieve superiorità, come uno che non sappia cho voglia dire il ritorno della società nel grembo della Santa Madre Chiesa.

Cosi, ci sembra che egli propugni qualche inaudita o nuovissima teoria, una religione totalmente diversa, da quella che conosciamo nella vità statale contemporanea e per lunga esperienza storica. Nello sue opere, l’idea del Regno di Dio riappare con la fantastica lontananza, ed insieme con l’imminenza poetica con la quale appariva nell’opera dei primi Cristiani, di S. Paolo e di S. Giovanni: con risonanze profetiche, come un adempimento di tutte le speranze di un’epoca che attende qualcosa. E’ veramente un Dio Sconosciuto che deve esser rivelato ancora al mondo che circonda il Chesterton; o la Chiesa Romana è per lui un esperimento ancora intentato, od almeno, di essa non restano vestigio spirituali intorno a lui.

Il Chesterton cerca di tener conto dell’esperienza non riuscita in altri luoghi ed interrotta in Inghilterra dalla follia erotica e dalla saggezza politica di un principe: ma tuttavia la Comunione dei Santi e la Chiesa Militante gli appaiono come fantasmi storici e come parabole esemplari, non come realtà storiche ed attuali.

Appunto per tutto questo, i suoi progetti e le sue proposte non si allontanano mai (almeno ai nostri occhi) da una certa platonicità di paradossi: non possiamo intendere che come una ingegnosa serie di paradossi l'opera più teoretica del Chesterton:- «What is wrong with the Wordl». Serie di saggi che si collegano l’uno all’altro per un tenue filo di corrispondenze, più che altro esteriori: il pensiero del Chesterton non è ispirato e diretto, ma suscitato da qualcosa di prossimo e di immediato, dal particolare e non da un disegno generale.

E’ questo in realtà il carattere intimo delle mentalità del Chesterton. Benché la sua opera si diriga verso l’eternità della fede e l’universalità della Chiesa, parte dal contingente; e nemmeno assurge alla universalità, ma soltanto si dilata, dilaga fino ad invadere il mondo. Questo é dimostrato soprattutto dai romanzi: partiti da un piccolo contrasto, da qualche peculiarità che l’autore attribuisce alla mancanza di fede cattolica, fanno risuonare successivamente, per vibrazioni sempre più vaste, il motivo iniziale che così si estende, come una nuvola tenebrosa, su tutto il mondo moderno.

La catarsi finale, cioè il ristabilimento della retta interpretazione cattolica della vita, viene raggiunta in un mondo completamente fantastico, del tutto irreale: ma sempre congiunto, per fili sottili, al panorama ristretto, al paesaggio preciso dal quale la trama aveva prese le mosse.

Sarebbe dunque un errore dire che i romanzi del Chesterton sono romanzi a tesi: perchè ai fini della tesi, si segue un esempio reale o verosimile in tutto il suo svolgersi nella comune realtà del mondo, o la tesi è tanto più provata quanto più veristico è il racconto. Invece, il racconto del Chesterton diventa, col procedere della narrazione, sempre più fiabesco: è questo l’aggettivo più preciso per indicare il carattere dell’opera romanzesca del Chesterton.

Non si tratta di allegoria: perché l’allegoria è, come le parabole del Cristo, un fatto particolare che rappresenta un concetto universale. Ma perché l’aneddoto assuma questo valore universale, deve venir trasferito su un piano spirituale. Invece nel Chesterton l’aneddoto resta nel suo piano di realtà immediata e si dilata ad essere (non solo a rappresentare) tutta la vita della società.

Perciò non possiamo considerare il Chesterton soprattutto come pensatore: egli stesso ci dice che il filosofo spazia nell’infinito mentre il poeta è poeta soltanto del finito. Opera poetica dunque, se immaginazione e poesia sono cosi strettamente congiunte: e definendo così il Chesterton, teniamo in vista le due opere che riteniamo più significative e personali, quindi più conturbanti per uno spirito impreparato, perchè appunto in «The Flyng Inn» ed in «The Man who was Thursday» il Chesterton si manifesta pienamente.

Per l’amore e l’attenzione del particolare, il Chesterton tende all’occasionale, cioè ad inserirsi su un aspetto immediatamente visibile, attuale dello spirito moderno. Ad esempio, por non rilevare che un lato esteriore, tanto «The Man who was Thursday» che «The Innocence of Father Brown» pagano il tributo alla passione con temporanea per la letteratura poliziesca.

E un poco strano, a prima vista, che la parte di poliziotto sia sostenuta da un prete cattolico (Father Brown) e che il poliziotto sia assunto esponente della rettitudine umana (Thursday). Ma la posizione spirituale di Syme e di Father Brown di fronte al delitto lo spiega: delitto ed anarchismo sono manifestazioni diaboliche perché disordine. Chi si eriga contro essi, rientra automaticamente nell’ordine, sociale e religioso. Dalla «ribellione contro la ribellione sorge la sanità spirituale di Syme.

Cosi l'agente dell'ordine, il policeman è un simbolo operante nella società moderna. La sua opera non è priva di una certa poesia: anzi, il Chesterton la vede addirittura eroica e leggendaria perché il poliziotto lotta e soffre e rischia per l’ordine e per la legge come i ribelli, i rivoluzionari rischiano a soffrono contro l’autorità.

Questa é la grande morale di «The Man who was Thursday» l’ordine e la legge non sono la pace o la gioia, sono lotta e sofferenza. Tale il segno di nobiltà che il Chesterton impone al suo ideale: la società ordinata, l’uomo disciplinato. Ordine e disciplina sociale che si confondono e si fondono con l’ordine e la disciplina religiosa: per un vero cattolico, che si sente membro della Comunione dei Santi, della Chiesa Militante, non v’è distinzione fra ordine sociale ed ordine divino. Il protagonista multiforme di «The Man who was Thursday» Sunday, trascorro inevitabilmente da capo della polizia (ordine sociale) ad esser la Pace di Dio, il Sabbath (ordine divino). E su questa strada il Salvatore del Mondo, come gli uomini dell’ordine, incontra la lotta ed il martirio.

Ma il mondo in cui si svolgo questo grande dramma spirituale risponde così bene ai gusti letterari ed alla vita moderna che al pubblico italiano il romanzo è stato presentato come un libro per ragazzi!

Per quanto questo sia comico, dobbiamo riconoscere che l’arte del Chesterton ben si presta all’equivoco. Lo stilo stesso ed il metodo di svolgimento oscilla continuamente dalla fumisteria più indifferente ad una solennità che affiora in qualche frase, perdendosi poi subito in una tempesta di immagini assurde, di scene colorate stranamente. Tanto colorato che il significato del quadro, la morale che vuol trarne l’autore si smarrisce, come il disegno architettonico di un edificio sopraccarico di arabeschi ornamentali. «Manative», ad esempio, dà l’impressione di essere escogitato più che a dimostrare una molteplicità spirituale e l’irruenza fantastica della vita, per stupirci continuamente, variando le scene con la libertà logica d’un caleidoscopio.

Perchè il Chesterton (per quanto possa sembrar strano dopo quanto si è detto) letterariamente è un verista. Non perchè descriva accuratamente tutto il quadro e tutta l’anima dei suoi personaggi, ma perchè nota il particolare che lo interessa con la precisione con la precisione e la sensibilità immediata del verista. Poeta, abbiamo detto: ma in ogni caso artista, che non dimentica mai nè lo sfondo paesaggistico delle sue scene, nè il rilievo delle figure di primo piano.

«Il grande drago marino dai colori mutevoli che serpeggia dintorno al mondo come un camaleonte, era di un verde pallido - quando sciacquava su Pebbleswick, ma di un azzurro carico quando si rompeva sulle isole Jonie.» — «Sopra tutto il paesaggio si stendeva uno scoloramento luminoso ed innaturale come quello del disastroso crepuscolo che Milton diceva proiettato dal sole in «eclisse». Sono questo scene, scene vive e viste con occhi d’uomo: ma con qualche lineamento peculiare che permette, per la sua influenza nascosta sull’animo del lettore, di introdurre una figura leggermente storta, un’anima che si accorda con ciò che il paesaggio vero ha di eccezionale e di fantasmagorico.

Questo è il metodo fantastico del Chesterton. Egli non ci persuade sempre, non ci fa addentrare nella fiaba senza che ci avvediamo della sua irrealtà: ma abbiamo almeno un senso di possibilità, sentiamo che le cose potrebbero ben essere così anche se non lo sono mai. Perché la vena di umorismo, anzi di vera buffoneria che affiora anche nelle scene più strambe o tragiche, ci tien desti e ci impedisce di lasciarci suggestionare come ci suggestiona un racconto del Poe.

Inoltre, gli avvenimenti più gravi, i rivolgimenti più profondi non ci sono rivelati che per echi: ci troviamo di fronte allo volgimento grandioso della posizione iniziale senza che questa evoluzione abbia bisogno di una dimostrazione. Gli effetti più strani sono dati come cronaca pura, senza che il lettore abbia mai un senso di sconnessione, di salto spirituale. Tra un momento e l’altro, c’è un filo logico che sembra sia compito del lettore scoprire.

Se ora riflettiamo al’opera di poeta del Chesterton nei primi tempi, riconosceremo facilmente un procedimento lirico nei suoi romanzi: tra questi e le poesie stanno gli stessi rapporti spirituali che fra poesie e racconti del Poe. La grandezza del Chesterton sta appunto in questa celata serietà di poeta, che canta perchè non può farne a meno ed inventa anche il grottesco perché deve dire cose di enorme importanza.

Qualo sia il vero posto del Chesterton nella letteratura moderna, può mostrarlo un confronto col Mac Orlan. Per quanto la storia fantastica della «Venus Internationale», ad esempio, sia narrata seriamente, noi ci domandiamo quale sia lo scopo di tutto ciò.

Del Chesterton invece, per quanto scherzi e divaghi, non ci avviene mai di chiederci lo scopo. Il suo intento è eccezionalmente serio, il suo compito è veramente alto, poiché dalla disordinata fantasmagoria dove sorgere il Regno di Dio, ed attraverso al tumulto del riso e delle stravaganze balena la speranza e la luce dell’eternità.

Mario M. Rossi.


G. B. PARAVIA & C.

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