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24 il baretti


(Socchiudo gli occhi, estranio

ai casi della vita
La vita.....
......Non agogno
che la virtù del sogno,

l’inconsapevolezza.)

Ora cominciava ad accorgersi che di tutte le illusioni quella era la maggiore; sentiva anche dentro di sé il fluire del tempo, che tutto muta e tutto rapisce, anche le creature della nostra immaginazione. Ed allora, come altri resta percosso per la perdita di una persona cara, egli fu percosso per non poter possedere interamente ed eternamente le creature della propria immaginazione, così come una volta gli avevano sorriso. Non meno delle donne vive, che egli non sapeva amare, anche le immagini del passato, suoi desiderati rifugi, si scoprivano enigmatiche e sfuggenti dalla vita dell’amatore immaginario. Spuntò allora, vero fiore della poesia del Gozzano, il senso della nostalgia, che sgorga dall’unico sentimento reale e profondo, che lo abbia scosso nella breve, arida esistenza.

Dallo stato d’indifferenza volontaria, di cui s’era fatto un programma di vita, racchiuso nel ritornello della Via del rifugio

(Socchiusi gli occhi, sto

supino nel trifoglio
e vedo un quadrifoglio

che non raccoglierò)


il poeta passa ad uno stato di languido rimpianto per la raggiunta coscienza che il passato è inafferrabile e lui è oramai impotente a cogliere il presente. I due simboli di questo nuovo stato d’animo, riscaldati di vera e intima poesia, sono la fotografia sbiadita della giovanissima Carlotta, l’Amica di nonna Speranza, con la data: « 28 giugno 1850 », e la fuga in bicicletta della viva adolescente Graziella, che non ha detto una parola al poeta e non ha lenito con uno sguardo la sua schiacciante malinconia (Le due strade)

.... « Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore...» — « O la Felicità »...

In queste due poesie, alla confusione precedente di motivi eterogenei e per lo più filtrati attraverso ricordi letterari, succede una discriminazione, che rende limpida e dà una fisionomia propria alla poesia del Gozzano. Questa è una fisionomia profondamente sconsolata. Il sorriso del « torinese » mondano si sforza invano di distendere le rughe di una precoce vecchiezza. Il poeta tenta ancora di foggiarsi la vita secondo le lusinghe della fantasia; ma questa volta la vita reale gli è dappresso e gli soffia un vento gelato sulla faccia.

Nel guardare la vecchia fotografia sbiadita di Carlotta gli pare di rinascere: (« Rinasco, rinasco nel mille ottocento cinquanta! »). Ma, ahimè! è un sogno di pochi minuti, e il poeta questa volta ne ha coscienza:

Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna!

(Ove sei

o sola che forse potrei amare, amare d’amore?)

Nelle Due strade il giovane legato alla pesante «catena antica» di un amore per una donna «da troppo tempo bella», è sconvolto dall’apparizione della vergine sul primo fiore. Ma il suo fantasticare è inutile: a quel fiore non gli sarà dato di stendere la mano. Egli resterà legato fatalmente all’antica catena umiliante. Adolfo moderno, non meno egoista, ma meno coraggioso.

In queste poesie l’arte del Gozzano prendeva significato e diventava veramente lirica, cioè da statica e schematica che era prendeva vita e movimento per un profondo contrasto spirituale.

Ahimè! quella voce aveva appena acquistato tono che fu soffocata per sempre!

Mario Vinciguerra.

RIPRESA DEI GONCOURT

Quando Edmond e Jules de Goncourt iniziarono, l’anno 1851, il loro diario, abitavano un modesto appartamentino a Montmartre e precisamente, rue Saint - Georges. Conoscevano poca gente, si annoiavano da morirne, e occupavano la loro giovinezza fabbricando penosamente grossi libri come l’«Histoire de la Société pendant la revolution» e «Portraits intimes du XVIII° siécle». Per inesperienza o poca fama erano anche stati costretti a vendere all’editore Dentu quest’ultima opera formata di 2 volumi, per soli trecento franchi, mentre ne avevano spesi circa tremila in ricerche e autografi. Con un cattivo affare di tal genere si chiudeva l’anno 1856, e finiva il loro noviziato.

Gli amici di cui si parla con familiarità nei primi volumi del Giornale erano sempre Gavarni, Flaubert, Saint-Victor, Gautier. L’ammirazione dei Goncourt era particolare per Gautier loro primo e ultimo maestro e per Gavarni sapiente calcolatore.

Ai tempi di Gavarni e di Gautier i due fratelli sostavano a lungo sulle impressioni di natura e di umanità, dato lo stretto cerchio di amici e il molto tempo da perdere. Le giornate passando in piena solitudine, annoiandosi della loro stessa compagnia come se fossero una sola persona, azionavano meticolosamente cose e persone incontrate e conosciute, si soffermavano volentieri su ogni futilità e decifravano con pazienza i nonnulla. Ma qua e là scaturiscono inaspettati tormenti e forti desideri.

Si erano staccati dalla oscura provincia per tentare la letteratura in un grande centro come Parigi, Edmond non ancora trentenne e Jules compiuto appena il quarto lustro. Un ventennio vissero in comunione di spirito, lavorando allo stesso tavolo, insieme, assiduamente e intensamente. Parteciparono al movimento letterario del loro tempo dimostrandosi con opere critiche e creative osservatori singolari, eruditi coscienziosi, moralisti e romanzieri nuovi. L’uno accanto all’altro conobbero le amarezze e le gioie della vita letteraria, molto più le amarezze che le gioie. Indimenticabile l’insuccesso di «Henriette Marechal» al Théâtre Francis, l’anno 1865.

Quando dal modesto appartamentino di Montmartre i due lavoratori avevano potuto confinarsi nell’ampia villa di Auteuil acquistata col frutto delle loro quotidiane fatiche cerebrali, realizzando così uno dei sogni più belli, al precoce Jules il destino non concedeva che poco tempo per godere la quiete c la felicità della ricca dimora, dove si sarebbe dato tutto con gioia alle serene creazioni.

Fino al giorno che i due fratelli e preziosi collaboratori furono sani e pieni di vita segnarono il fenomeno più interessante della letteratura dei loro tempi. Le doti dell’uno supplivano alle manchevolezze dell’altro. Vivevano una vita intensa e aristocratica che destava intorno invidia e curiosità. Spentosi il fratello minore a soli quarant’anni, Edmond visse a lungo da sopravvisuto centenario. Non perdette, perchè innata, la volontà di scriver libri, ma fu un altro nei rapporti col mondo Forse non era andata via per sempre la migliore parte di se stesso? Vagò sperduto e malaticcio. Continuava in lui a vivere il lavoratore tenace, ma nella sua opera mancò sempre la scintilla che un tempo veniva fuori al contatto delle due diverse intelligenze. La nota gaia dello spirito di Jules de Goncourt non si ritrova più nelle innumerevoli pagine lasciate dal fratello rimasto. Ora è dovunque l’incubo, l’attesa della morte imminente. Il più giovane e più ardente esercitava i suoi benefici effetti sulla natura riflessiva e grave del fratello maggiore. Da tale contrasto scaturiva la prosa agile e colorita; nella intensa lotta delle due anime avveniva la tormentata selezione delle idee. Edmond e Jules de Goncourt non erano una sola penna o un solo cervello che funzionava, ma due coscienze diverse. I primi tre volumi del Giornale furono scritti quasi per intero da Jules. In seguito Edmond prese la penna caduta dalla mano del povero prezioso fratello. E si vede chiaro che i primi tre volumi sono roba diversa dal resto, specchio della loro intelligenza associata, ove in realtà può ammirarsi il singolare spirito dei Goncourt.

Jules era accidioso, indolente, mentre Edmond era metodico, nemico dell’ispirazione, dotato di forte volontà. La mattina di buon’ora il fratello maggiore già in piedi, pronto a lavorare, quasi sentisse una responsabilità paterna sulla comune opera, andava a svegliare il fratello per riprendere insieme le faticose carte. Jules dormiva ancora quando il severo collaboratore, la pipa accesa, saliva fin nella cameretta di sopra a toglierlo quasi bruscamente dal mondo dei sogni. Si levava mal volentieri nelle ore mattutine e, come lo stesso Edmond ci narra, veniva trascinato a forza al tavolo del lavoro. Ma la volontà del fratello maggiore s’imponeva su quella del più piccolo che, fiero e cosciente della sua missione e spinto da un forte orgoglio di mestiere, finiva sempre con ubbidire. Meccanicamente Jules riprendeva la pagina del romanzo lasciata nelle prime ore del mattino ancora calda di vita; l’ispirazione veniva man mano che i fogli ripieni si accumulavano sotto la sua penna. Scrisse sempre lui di suo pugno, finché visse, i libri ideati in compagnia di Edmond. La sua era una grande fatica. Il fratello maggiore a sua volta non si sentiva capace di lavorare senza sentirsi accanto l’indolente collaboratore; abitudine che giocoforza dovette abbandonare, avvenuta la morte del fratello. Edmond era molto più letterato di Jules, per lui la letteratura formava l’unico scopo della vita: il bel libro sopra ogni cosa. E tale mestiere esercitava con scrupolosa esattezza.

Ma l’evidente contrasto dei caratteri doveva intimamente ridurre infelici i due fratelli. E Jules dotato di fibra meno resistente soggiacque alle torture di Edmond. La sua morte causata da uno sforzo continuo di volontà lo dimostra. Troppo tardi il più savio si accorse di aver logorato la esistenza del gentile compagno, quando già questi, toccato mortalmente dalla fatica, negli inaspettati bagliori della coscienza, smanioso di luce c di vita sana, aveva preso a odiare i libri e il fratello; le due sole cose predilette nella sua breve vita, ora, durante la lenta e penosa agonia, gli apparivano quali suoi mortali nemici.

Cosi aristocratico, cosi padrone di sè Edmond de Goncourt durante la compagnia di Jules, dopo la morte di quest’ultimo, scese ogni giorno sempre più verso l’umanità, bisognoso di conforto e di fraterna amicizia. Cercò i frivoli successi frequentando teatri affumicati; esaltò guitti e romanzieri d’appendice; alla ricerca continua di un altro uomo che potesse occupare nella sua casa il posto lasciato vacante dall’affettuoso collaborare. In tale ricerca finì anche con lo sciupare quel po’ di buono rimasto in lui. Fraternizzò con i Daudet credendoli famiglia di genio, con Antoine e con altri fondatori o rinnovatori di teatro, dando agio a tutti di speculare sul fascino e sulla notorietà del suo nome. Lasciò portare alla «rampe» quasi intera la sua intangibile opera di romanziere, da « Germinie Lacerteux » a «Les frères Zemganno». Poiché aveva visto man mano Zola, Loti, Maupassant staccarsi dall’ombra, giungere all’immenso successo, alla fantastica fortuna, il desiderio di arrivare al fanatismo delle masse aveva preso anche lui. Sperava allora che l’apparente insuccesso dei suoi romanzi dovesse mutarsi in grande trionfo al teatro. Vecchio e sofferente volle ritornare alle battaglie della giovinezza, dare a tutti la sensazione di non essere caduto negli anni, si dedicò anima e corpo a inseguire la capricciosa chimera, ma lo spirito e la forza venivano a mancargli. S’illudeva di rivivere le giornate di « Henriette Marechal » solo perchè all’Odeon o al teatro di Antoine i suoi romanzi dilaniati suscitavano un’ira infernale nella sala. Il morbo del teatro lo aveva preso forte negli ultimi anni, tanto da fargli perdere completamente la testa. Il solitario disertava allora l’ampia villa di Auteuil, per correre dalla mattina alla sera da un impresario a un altro — una vera e propria via crucis — a vigilare sulla sorte dei suoi lavori, da mettere in iscena; ansia, febbre, trepidazione, gran tic-tac di cuore alle premières e alle riprese, non dormire più, non mangiare più, vivere settimane intere in una prolungata e dannosa tensione di nervi. Egli stesso non riusciva a spiegarsi la ragione di tanta passione per il teatro, ma s’inebriava fino al punto di ubriacarsi, nella speranza di una imminente rappresentazione di un suo lavoro.

Per molti anni Edmond de Goncourt aveva lavorato gettando nel mercato letterario tanti libri ed era anche rimasto nell’amaro silenzio e nella triste solitudine, senza mai chiedere ai suoi ignoti ammiratori e detrattori una sola parola di lode o di biasimo. Ora, quando già era troppo vecchio e a torto si sentiva giovane per aver dimenticato la sua personalità, volle dare sfogo al suo desiderio già imputridito, di chiamare gli uomini a raccolta e farsi battere le mani o farsi insultare personalmente. Li voleva vedere uniti i giudicatori del suo talento singolare, e per diversi anni li fece accorrere nei vari teatri aristocratici e popolari di Parigi. E non disperò mai di ottenere un successo teatrale pari a quello che spesso capitava a Loti, Zola, Daudet, il clamoroso successo seguito da innumerevoli repliche; ma fortunatamente non ebbe mai, e rimase artista dal fascino misterioso e martire incompreso. Nella mania o passione per il teatro portò la cocciutaggine, la tenacia di letterato, la stessa volontà ferrea con la quale aveva ossessionato e reso vittima senza rimedio il fratello. Edmond de Goncourt fu di peso sugli impresari e sugli attori; li oppresse, li confuse, li annichilì con la sua testardaggine. Non lasciò in pace nessuno. L’indulgenza e la bontà con cui veniva trattato erano dovute all’ammirazione rimasta verso il suo passato: e solo in nome del passato egli riuscì a portare sulla scena le sue intangibili creature nate di poesia, di solitudine e di tormento, per avvilirle, confonderle nella mediocre umanità, farle prostrare ai piedi d’una folla alcoolica, macchiarle d’olio di palcoscenico. Un’attrice intelligente e buona come la Réjane fece tutto il possibile per conciliare il talento del curioso scrittore con le pretese del pubblico poco evoluto; diede tutta sè stessa perchè il nome dei Goncourt rimanesse puro anche nella contaminazione delle scene. Cosi non la pensò Sarah Bernhardt. Edmond la circondava di cure, la cercava, la esaltava inutilmente, si umiliava dinnanzi a lei nella speranza che l’idolo della plebe parigina lo interpretasse. La Benardht molto pratica lasciò sospirar invano alla soglia di casa sua l’autore della « Faustin » e non gli confidò mai che la roba apprezzata da lei e dal suo pubblico era fatta dagli escandescenti martelliani del più tarchiato e sano Hugo.

Sperduto, affaticato — lo s’incontrava a ogni svolto di strada. — Edmond de Goncourt invano vagò e si smarrì nella ricerca della felicità e della grossa gloria che la gente del suo secolo avrebbe dovuto dispensargli. Vagamente egli richiamava alla memoria degli uomini, i due aristocratici letterati di un tempo. Solo una volta l’anno, il giorno d’ognissanti, Goncourt si ricordava in realtà del grande fratello scomparso.

Con quanta pazienza e con quanta cura i Goncourt redassero il loro Giornale, questo manuale del perfeto letterato! L’uno e l’altro non avrebbero dovuto finire con l’annoiarsi di registrare indiscrezioni e pettegolezzi da Magny e di notare piccoli e grandi avvenimenti settimanali del mondo spirituale? Per più di quarant'anni Edmond fu fedele alla vita delle sue cronache. Grazie al gradevole almanacco chiunque può familiarizzare con gente che non capita spesso tra i piedi, come Flaubert, Sainte-Beuve, Gavarni, Daudet, Zola, Maupassant, Renan, Turghenief, Taine, Rodin, Gambetta, Loti, Hugo ecc. Le ingenuità sulle abitudini degli uomini lasciate fresche e colorate dalla penna dei due sagaci acuti e lungimiranti fratelli, divertono tanto, che non passa una stagione che il Giornale non ritorni qualche ora in voga alle rive destra e sinistra della Senna, per rianimare le conversazioni dei « boulevardiers ». Appassionano le cronache dei Goncourt in ispecie per le indiscrezioni che vi sono dentro: letteratura amena sarebbe il Giornale secondo la maggioranza. E pensare che i due fratelli erano convinti di aver fatto storia onesta seria scrupolosa, di aver dato una severa testimonianza dei tempi vissuti, a studiarsi nell’avvenire come in alcuni collegi si studiava già l’« Histoire de la Société pendant la revolution ».

Ma in particolar modo gli annali dei Goncourt meritano l’attenzione degli onesti letterati ché, oltre a poter rifare in essi la storia imparziale del tempo, c’è anche da ricostruire attraverso le vive pagine l’intimo dramma delle due anime, che ha inizio e fine tra il 1851 c il 1870, quando i due fratelli creavano con la loro tormentata e legata esistenza letteraria il più schietto romanzo.

Aniante.


Imminente:

RICCARDO ARTUFFO

L’ISOLA

Tragedia - Ai prenotatoti L. 10.


PROPILEI

(pensieri)

A esprimersi ci vuole pudore: che è come il paralume che attenua e a volte colorisce la luce. C’è chi lo ha e c’è chi finge di averlo; ma dal tono lo si può capire. Nature violente ed impazienti esistono, tuttavia, che han bisogno di mettere le loro intimità in pubblico: per costoro il pudore non esiste. Scoperchiano l’officina e ti fanno conoscere ogni meccanismo e procedimento (quando tutto non si riduca a un povero banco di legnaiolo) in modo che poi, a riguardare l’opera compiuta, manca il più importante della meraviglia: l’imprevisto. Questi artisti sono in parte perdonabili: perchè la loro impudicizia è innata; perchè ti mostrano organismi grandiosi o comunque notevoli dai quali bene o male puoi imparare; e poiché ne sono puniti mancando a loro quella soddisfazione, della quale sentono più che altri il bisogno di commuoverti naturalmente col loro mito; della commozione, poniamo, che può cagionarti un bello e limpido cielo. Non è perdonabile però chi, fabbricando burattini senza grazia, sente il bisogno di mostrarti i suoi scarsi ferri; presuntuoso che come l’epoca sacrifica alla critica vuol farti credere che anche lui ci ha la sua parte di malanno e si rende simile a quelle donne che se gli andate a dire: — il tale è grave — rispondono invariabilmente: — ed io? da stamane mi dura l’emicrania... —

Forse è questo pudore che trattiene noi dal metterci troppo in mostra. Se non sia invece qualche dubbio egoista come quello di non dire nulla di importante o di dirlo male; ipotesi da scartarsi riflettendo che tutto e nulla è importante e si dice male solo quello che non si ha da dire. Oppure una certa vanità di gente superiore anche all’arte e che non vuole manifestatamente mettersi per nessuna strada: oppure l’idea che a decidersi c’è sempre tempo, segno questo, semmai, che le vostre necessità non son troppo impellenti.

***

Eppure, dentro di noi, tutto è terribilmente espresso. Ma ci accade, avvicinando chi non ci somiglia di scoprire che siamo lontani, oh quanto! da farci capire e rieccoci nella paura dell’insufficienza. Questo ci fa conoscere come la solitudine non sia già di chi basta a sè stesso — nessuno basta a sè stesso — ma di chi non ha con chi discorrere di quello che più gl’importa; e cioè delle ingombranti avventure del proprio cervello.

Fu dato all’uomo di buona volontà, a differenza dell’animale che vive una sola possibilità, questa felice attitudine a spogliarsi d’ogni più aderente abito e capacità non appena ne scorge la trama del troppo uso. Ma questa virtù, per similitudine in comune colla serpe, è solo di chi come essa ha lungimirante e a volte fascinatore lo sguardo; e ci viene forse dall’accanirsi che il Tentatore fa contro di noi, cibo per lui agognato.

Ma, cambiando, possiamo sempre fargli il tiro di rinfanciullire; per qualità l’epoca lo concede, che è pervasa di lui e domanda scaltrezza.

***

Non si è per tutti la medesima persona. Ciò non soltanto perchè ognuno vi guarda con occhio diverso, ma perchè è necessario esser veduti in modo diverso da ciascuno. Cosi ogni uomo mostrerà od alcuni specialmente le proprie virtù: ad altri specialmente i propri difetti.

***

L’orgoglio è un’innata fanciullaggine. Diffidare di chi non si mostra orgoglioso: costui ha dentro consumata ogni fonte d’ingenuità ed è giunto non che a ridere di sè stesso — cosa non troppo difficile chi ci goda a prodursi come leggero ed a farsi accettare dal prossimo — ma a stimarsi con sicurezza: a costui è possibile ogni più difficile atto e può rifiutare qualunque domanda di schiarimenti. A vivere non ci ha poi tanto gusto e se non è un artista che si risolva a giuocare — ecco l’ultima forma d’interesse — è certo l’uomo delle belle occasioni, quando la vita si può buttare per una parola. Diffida: questi è un grand’uomo, ed è libero, e può trascinarti dove vuole lui. C’è poi tra chi non è orgoglioso anche il povero di spirito e il santo. Ma il primo si dà a conoscere e si difende con la presunzione e il secondo ha giù concluso per sè e per gli altri mentre per noi, sinora, a certe conclusioni è più santo non arrivarci.

***

Per farsi una personalità è necessario sbarazzarsi di tanto in tanto della propria. Questo conduce al disinteresse, allo spirito di sacrificio.

***

E' pacifico: la matematica e la logica sono i più grandi errori dell’uomo. Avendo bisogno di un assoluto egli ha creato queste due fredde astrazioni e coi numeri gioca e coi ragionamenti come un Nume con le possibilità. E fu stabilito che quanto più è uomo è freddo maggiormente egli si dimostri buon dialettico e matematico. Pure, esistono degli uomini che possedendo poca umanità riescono per via d’intelletto a concepirla e sono in questo ammirevoli; chè la loro manca di facili difetti.

***

Tutta l’umanità lavora per un’astrazione: poiché il progresso, questa felicità promessa nell’avvenire, esiste realmente, ma in astratto. L’uomo perciò non si riposerà mai: se non nel pensiero, nell’arte. Di fronte alla vita si tratterà sempre di fare un certo numero di movimenti più o meno dolorosi.

Adriano Grande.


PIERO GOBETTI Direttore responsabile.

Soc. An. Tip. Ed. «L’ALPINA» - Cuneo