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IL BARETTI MENSILE Le edizioni del Baretti Casella Postale 472 TORINO ABBONAMENTO per II 1926 L. 10 - Estero L. 15 - Sostenitore L. 100 - Un numero separato L. I • CONTO CORRENTE POSTALE Anno III - N. 3 - 16 Marzo 1926

A PIERO GOBETTI


COMMIATO

Questa pagina non fu scritta per essere pubblicata. Fu trovata in un taccuino, che Gobetti portò con sè a Parigi: è, si vede, una confessione, affidata a rapidi appunti delle impressioni provate lasciando l’Italia. È perciò una delle ultime cose scritte da lui: e rivela quell’intimità dell’animo suo, che gli amici conoscevano o indovinavano, ma che egli amava celare sotto il serrato gioco della dialettica o sotto la polemica implacabile.

L’ultima visione di Torino: attraverso la botte di vetro traballante che va nella neve: dominante l’enorme mantello del vetturino (che è l’ultima sua poesia). Saluto nordico al mio cuore di nordico.

Ma sono io nordico? e queste parole hanno un senso? Valgono per la polemica queste antitesi dottrinali, e anche di gusti, di costumi, di ideali. Mi sentirò più vicino a un francese intelligente che a un italiano zotico — ma quando mi proporrò delle esperienze intellettuali, quando li guarderò per la mia cultura. Ho sentito in Saffron Hill come io sia ancora attaccato alle cose umili, alla vita della razza. Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledicono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati.

T. dice che è meglio un paese civile. Ossia pensa che potrà fare meglio i suoi articoli. Egli ha rinunciato a ogni altra risonanza. Io sento che la mia azione altrove non avrà il sapore che ebbe qui: che le sfumature non saranno intese: che non ritroverò gli stessi amici che mi capivano.

Il cinismo era una difesa contro il sentimentalismo che ripugna al mio ideale virile. Ma io sarei desolato se la mia vita si riducesse a una rigorosa esecuzione di un piano e se non avvertissi in me, difficile a dominare, nei momenti più difficili, il tumulto della vita e l’ansia degli affetti.

Il senso del fato — non come punto di partenza, ma come indifferenza alle vicende — quando si è sicuri di sè. Non mi importano i risultati perchè li accetto come misura della mia azione, di me (un’altra misurazione della volontà sarebbe complicata e impossibile). Bisogna essere se stessi dappertutto. Naturalmente non si deve essere isterici e si può essere tranquilli solo se non si cercano delle conferme. La concezione della vita come serie di esami è stupida: tutto si riduce invece all’aver credito, al non aver bisogno di esami perchè si è qualcosa (si intende sempre socialmente).

LA SUA GRANDEZZA


Altri ha scritto parole di rimpianto, quelle parole di rimpianto, che salgono spontanee alle labbra di tutti quando scompare, nel fervore delle speranze e delle opere, un giovane, e lascia dietro di sè, con l’ammirazione per quanto ha compiuto, il rammarico di quanto avrebbe potuto compiere e lo sdegno per le circostanze avverse che ci hanno privato di qualcosa,che nessuno mai potrà dare. Ma gli amici sentono che non si può piangere Piero Gobetti come si piange un giovane, caduto affranto sotto il peso di una troppo grande opera intrapresa:

così cadono molti, ma così egli non è caduto, c, per quanto sentiamo più degli altri lo strazio di questa giovinezza infranta, noi non possiamo parlare di «morte immaturaa o lodare questa o quella sua opera, questo a quell’aspetto del suo ingegno e del suo carattere e rammaricare quanto dalla morte gli fu precluso di fare. Non guardiamo a quell’avvenire che non sarà mai, ma a quello che egli è stato, a quello che ci lascia: dobbiamo (ed è compito arduo) custodire l’insegnamento che scaturisce dalla sua vita e dalla sua opera, legato infinitamente prezioso cd unico, che nessun giovane ha mai lasciato e che non lasccranno i grandi, che pur noi veneriamo.

Quello che egli sarebbe stalo a trenta, a quaranta anni, noi non riusciamo ad immaginarlo:

oggi, riandando al passato, scopriamo di non averci pensalo mai. Perchè, al suo avvenire, non ci pensava egli stesso: la sua ambizione era sempre tutta nell’opera che stava compiendo, nò soltanto in questi ultimi tempi, ma a diciassette anni, ai tempi di u Energie -Vorc», quando pure sarebbe stato naturale abbandonarsi ai sogni indefiniti doll’avvcuire, ed egli invece non parlava che del giornale, che stava componendo, dello studio che si accingeva a stendere, della traduzione che veniva correggendo, del sistema filosofico, di cui cercava di impossessarsi. Pensare ad un avvenire più remolo, doveva sembrargli un affidarsi a forze estranee, un attendere da altri quello che egli credeva dover chiedere soltanto a sò slesso, e perciò una debolezza, una colpa:

perciò non si concedeva le pause di sogno che gli altri giovani si concedono; e noi lo vedevamo, di anno in anno, sempre al lavoro, sempre con la medesima fiducia in sò stesso, sempre egualmente pronto a far fronte a tutte le difficoltà, sempre sorridente: e ci Pareva che

sempre, negli anni avvenire, lo avremmo trovato così al lavoro, accanto a noi, un poco più in allo di noi. Taluno di noi, quando apprese la notizia della sua morte, non seppe trovare altre parole che queste: Non è vero, non è possibile.

— E ancora oggi, che sia morto, sembra a noi tutti cosa impossibile.

Tanto la vita appariva strettamente congiunta con la sua persona: tanto ci eravamo abituati da tempo a considerare il dubbio, l’incertezza e il dolore come cosa nostra, non sua.

La sua figura ci appariva tutta luminosa, priva di ombre. Lo vedevamo sempre egualmente sereno dopo le avversità, lo avevamo trovato tanto ialino dopo i primi attacchi del male, che doveva condurlo a morte, che itoti potevamo pensare che quelle avversità avrebbero avuto ragione della sua fibra e che il male fisico fosse di tanta gravità. Oggi al pensiero di quanto deve aver per anni sofferto, tacendo la propria angoscia, proviamo un amaro rimorso di non aver indovinalo sotto la sua serenità il suo dolore e di non aver sofferto con lui e di non aver alleviato così il suo strazio:

c sentiamo nel suo perpetuo, indimenticabile sorriso, in quella serenità, che avevamo talvolta invidialo come una dote nativa, il segno di una straordinaria, di un’unica grandezza morale.

Prima avevamo ini ravvisto, ma oggi soltanto comprendiamo che egli Ita negato a si stesso coscientemente tutte quelle lusinghe, lutti quei prifilii, tulle quelle debolezze, che non giovani soltanto, ma uomini malti ri sogliono concedersi, li, come dei giovani si negò le illimitale ambizioni, così negò gli scoraggiamenti improvvisi, che per lui avevano pur troppo cause reali/ e tutti gli atteggiamenti romantica che paiono propri di tutti i giovani.

Ma come pochi uomini satino, egli apprese giovanissimo n non fidare in altri che in sò stesso, a lavorare senza speranza di premio, ad accogliere l’avversità come tiri fatto, contro cui non vale ribellarsi e che può imitare temporaneamente la direzione della nostra attività, non sminuirla o cangiarne la natura, a celare altrui la propria tristezza, a scegliere sempre, senza esitare, la via più difficile, come la sola nobile, anzi come la sola Iceita.

Non parliamo di quelle vie facili, che sono l’abbassamento di /tonte alle opinioni dominanti, i compromessi tra la propria coscienza e il proprio interesse, il porre, palesemente o larvatamente l’ingegno a servizio di chi può ricompensare, e nemmeno di una tranquilla, onesta e dignitosa carriera, in cui senza difficoltà avrebbe raccolto onori e soddisfazioni:

tanto sentiamo queste ipotesi più che ingiuriose, inconciliabili col sua carattere energico di lavoratore e di combattente. Ma anche nel cammino per cui si era messo, era possibile una scelta tra il più facile e il più difficile, tra il compromesso larvato e la totale, tragica dedizione di sò. Egli seppe rinunziare anche a quelle soddisfazioni, che non si chiedono ad altri ma a sè stessi, più care perchè più segrete.

Opporsi all’opinione dominante, scorgere la falsità e la menzogna dove i più vedono la grandezza, rivelarle a pochi iniziali e alla folla che non vuole credere e che ride o impreca, tutto questo non è privo di fascino segreto, e può esser fonte di una infima soddisfazione, che si scorge attraverso il gioco dialettico che capovolge l’opinione comune, o nel motto beffardo che la irride e gode della sua bestialità. Ma una tale opposizione resta cosa tutta intellettuale, ha in sè la propria soddisfazione, non aspira a mutare la situazione che i’ ha suscitata, non impegna l’individuo:

in ogni caso dipende da una situazione esteriore, che domani potrà mutare, e che perciò disarmerà affatto l’individuo delle sue arai:

per non dire, che quando l’intelligenza soltanto ò impegnata, il compromesso, si sa, è sempre possibile.

Ma anche nella lotta aperta, senza quartiere, vi sono soddisfazioni, consolazioni segrete:

la speranza di un successo facile con ’mezzi sproporzionati al fine, che permette di non darsi tutto alla lotta impegnata, il compiacimento di sentirsi vittima, di nascondere il proprio pensiero e le proprie azioni nel segreto.

Ma Gobetti non voleva essere nò un politicante, nè un Jacopo Ortis. Non voleva combattere degli uomini per averne, in un qualsiasi modo, vittoria, ma opporre ad opere altre opere diverse, costruire da sò solo con le proprie forze, qualche cosa di diverso, da quello che gli altri, i più andavano facendo. E perciò non poteva sentirsi giustificata dagli atti degli avversari, e chiudersi nel silenzio come un nomo politico vinto o ammantarsi dell’abito di ribelle: e perciò, quando non potè più lavorare in Italia, Part1 per la Francia, non per l’amaro gusto dell’esilio o Per cospirare, ma semplicemente per continuare l’opera di editore, che in Italia gli era stata vietata.

Questa è vera grandezza: e tutto questo, egli lo compiva, senza far sentire ad altri la gravezza del còmpito intrapreso, e parlava di sè e dei suoi propositi come se credesse che ogni altro al suo posto avrebbe agito egualmente, come fosse cosa naturate, ragionevole agire in tal moda: c, anziché farsi bello della sua singolare forza di volontà e chiudersi in un arcigno silenzio e atteggiarsi a lottatore, si rivolgeva a tutti con un benevolo sorriso di fanciullo, che lasciava lutti stupiti e che oggi soltanto ci appare la più grande e pura manifestazione della sua forza.

l i sono alcune parole, dì un giovane morto ventenne, che oggi ci ritornano con insistenza alla mente. Chi lesse (intorno al ’21 0 al ’22) il diario di Otto liraun, il giovane tedesco morto in Francia nella primavera del 1918, senti già allora in quelle pagine non l’immagine di uno straniero, ma un’immagine familiare vicina, quella di Gobetti. Molli idee comuni, ma più l’ardente spirito etico, con cui l’uno e l’altro sentivano e giudicavano tutte le manifestazioni della cultura, il senso austero della vita politica diversa e pur congiunta alla ■vita morale, la fiducia iti sò stessi, scevra di ogni iattanza, la freschezza giovanile di ogni loro atto e di ogni loro espressione, ci facevano apparire singolarmente vicini i due giovani, stranieri l’uno all’altro, ma appartenenti alla medesima generazione. Ma, più felice e meno grande, il giovane tedesco, morto a ventanni in guerra, non conobbe che l’eroismo e la disciplina bellica e morì, fanciullo ancora, lasciando soltanto pagine, in cui sono affidati i suoi propositi: ma Gobetti, morto a venticinque anni, conobbe le lotte quotidiane e più difficili della pace, quando non ci si può abbandonare al destino e nessuno compagno ci può sorreggere e non vi è speranza di fregna o di riposo, e lascia non propositi vani per quanto nobili, ma qualcosa che deve durare. E il destino, a cui il liraun aspirava, Piero Gobetti, senza forse averne coscienza, nello spazio di pochi hanni lo ha raggiunto.

— Una cosa mi si ò fatta chiara, è scritto nel Diario del liraun; quel che di più alto un uomo può raggiungere nella vita non è la gloria, non è la fortuna, e nemmeno la grandezza, no, e neanche quello che finora m’era parsa l’altezza definitiva, l’opera;.ma è soltanto questa diventar tal modello che solo con la sua presenza determini il mondo e l’umanità....

In questa guerra io ho verificato e tornalo a verificare che cosa significa essere capo, che cosa ciò imporli e come il capo sia in grado di far tutto. In che modo? Forse con massime morali, con insegnamenti, con singole azioni?

No, ma con quello che comunemente si chiama il buon esempio, vale a dire col suo essere così, col suo essere presente.— E quale esempio ci lascia Piero Gobetti!

Quando era in vita, lui, che fu giudicato critico aspro e implacabile di uomini e di cose, era in realtà verso chi gli era vicino di una indulgenza singolare: negava a sè ogni debolezza, ma intendeva le debolezze altrui: e la fiducia che egli aveva in sè, finiva col comunicarla ad altri, sicché da un colloquio con lui, ritornavamo con la coscienza più salda nelle nostre forze, con più fermi propositi di lavoro.

Oggi sentiamo perciò più amaramente tutta la nostur piccolezza: ma, nello stesso tempo, il dovere di superarla, di renderci quanto è possibile simili a lui, non di continuare l’opera sua, che soltanto a lui era possibile, ma, in un campo più limitalo e modesto, conservare quella comunione di uomini e di lavoro che egli creò. Che la sua compagna, la quale ne ha condiviso le ansie e ne custodisce gli ideali, e il suo piccolo figlio, che crescerà degno di lui, e in giorni più propizi, non abbiano un giorno a rimproverarci, non dico di averlo tradito, ma di aver commesso qualche atto, o pronunciata qualche parola, di cui egli avrebbe dovuto dolersi!... Lavoro perchè credo all’immanenza della vita e della storia, perchè sento di realizzare così in me la legge universale; perchè credo clic, volendo migliorarci e farci seriamente generosi in questo nostro mondo dobbiamo rinunciare a tutto ciò che è troppo personalmente interessante, troppo empirico e limitato: dobbiamo sacrificarci non inutilmente e rumorosamente, ma silenziosi, ogni giorno, all’opera nostra che, per quel che vale, diventa appena esce da noi, appena si estrinseca, patrimonio di tutti.... Rinunciare per offrire tutto a chi di noi non si curerà e ci negherà persino nell’atto in cui imparerà da noi quel che potevamo insegnare.

E tuttavia non fermarsi nella rinuncia perchè il nostro spirito non è nulla, è vilmente miserando se per un momento si astiene da quell’attività che è un dovere, conservare il senso della responsabilità per tutto, questo è ]’eroismo tragico perchè silenzioso, perchè limite e sconosciuto, dell’uomo moderno...

(da una lettera, 1920).

EA SUA GRANDEZZA