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94 il baretti

IL BAEETTI OPERE E CIANCE Propositi d’eccezione Fallite le tue trattative col Piacci, il Silva, giovane autore miope t biondo, non scoraggiù; e si recò dal Lembo che, prossimo alla quarantina, era il primo cronista d’un quotidiano della sera.

Il Lembo lo ascoltò con un sorrisino pacato:

scosse il capo: e poi, facendo ciondolare tra il pollice e. l’indice gli occhiali:

— Tu sci — gli disse l’ineffabile prodotto storico del tempo nostro. 7*u t>uo» fondare un teatro d’eccezione. Vent’anni fa, invece, avresti voluto fondare una nuova rivista letteraria.

Forse tra vent’anni i giovani Silva vorranno nobilitare la cinematografìa o la radiotelefonia con intenti d’arte trascendentale: e dopo altri venti la nuova generazione dei Silva tornerà forse all’idea d’una nuova rivista letteraria.

Ah, questo teatro italiano, a detta di molti tanto vittorioso e fecondo, di quanto male è padrei Almeno, cent’anni fa, importunavate soltanto un tipografo e dei probabili abbotuzti; ora v’occorrono un locale, degli attori, degli scenografi, e, quel ch’è più grave, un pubblico vero e proprio, in carne e ossa, che si presti ad ascoltarvi.

— Intomma, tu non vuoi saperne.

— Io son dis/tosto a venire nel vostro tempio per farvi la comparsa, il biglicltario, il macchinista, la maschera, il cassiere, il trovarobe, il maldicente, lo scenografo; sono dispostissimo a non venir mai alle vostre rappresentazioni e a dirne un gran bene: ma ti avverto che io lo penso esattamente come il Piacci.

— Quell’imbecille!...

— Sissignore, sissignore. Dei nomi del vostro eventuale repertorio il Piacci ricordava soltanto Ibsen è Pirandello. Non mi è stato difficile di ripetergli gli altri: Sarme.nt, Grommetpnck, Vildrac, Claudel, Strindberg, Maeterlinck, Kaiser. E se ancora aggiungo Shaw e Lcnormand, e magari il malinconico autore di una Sacra Ilapprcsentazione, credo d’aver bell’t definito il tuo repertorio d’eccezione.

— Eh si, press’a poco.

— . L’ottimo Piacci, invece, dice che un teatro d’eccezione o no. non può reggersi senza Scribe e senza Saldali, lo dico che un teatro d’eccezione, veramente d’eccezione, deve rappresentare soltanto i drammi dello Scribe e del Sardou: e del Bernstein e del lìostand.

E con ciò il Lembo, truce e severo, aveva insaccato le mani nelle tasche dei pantaloni, aggirandoti a gran passi. Tanta ferrea convinzione emanavano i suoi atteggiamenti che il Silva t’era rannicchiato sulla sua sedia, un pò impensierito’.

— Carissimo Lembo, io ti ringrazio e spero...

— E sta’ seduto, chè non ho finitot -— e ricacciò sulla sedia il Silva che incominciò a farsi crocchiare le nocche delle dita, con un condiscendente sorrisino.

Il Lembo, ora, s’era fermato come estatico, 10 sguardo al soffitto, le braccia alzate sopra il capo:

— Ah, io sogno l’interpretazione di Dora o le Spie- con luci psicologiche, scenari sintetici e atteggiamenti ieratici/ Ma pensa a quello che dev’essere il cosidetto dramma borghese smantellato della scenografia tradizionale, dei gran gesti, degli urli, delle lacrime e dei sorrisi troppo eleganti/ Recitare ogni cosa con pause e silenzi interminabilmente significativi: giacchi tra una battuta e l’altra per lo più avvengono tali rivolgimenti psicologici, tali ovvii tremendi trapassi che, a volerli veramente giustificare in una loro euritmia, bisognerebbe, talvolta, frapporre ira una battuta e l’altra almeno un atto intero. E quali nuovi effetti si avrebbero, quali impensate meraviglie quando un direttore di teatro veramente degno di quel nome consacrasse ogni sua cura a battute come questa:

«La carrozza del conte dovrebbe essere in giardino, dove Gastone giuoca al tennis con Liliana, da poco tornata dal collegio; forse perciò Marina non s’è ancóra fatta vedere». Ah, tutte queste Marine, Marie, Luise e A nnabelle, questi Gastoni e Giuncarli con tutti i loro cognomi morbidi, generalmente al pluralel Dir loro:

questa è una panca, quello è un fondale verde:

quindi siamo in un giardino, così come ha voluto il vostro autore: pensate e parlate. E pensate prima di parlare. Riuscire a rappresentare 11 vero angoscioso dramma di ogni personaggio costretto a pronunciare proprio quella sua tal battutaI A simili sfuriale il Silva era avvezzo; e il Lembo continuò, accennando eoi dito a un’altra sottile possibilità del suo metodo:

— E contemporaneamente non trascurerei le.

ultime primizie. Ambientare una buona volta I drammi del Rosso di S. Secondo tra scenari realistici, con un tono di recitazione borghese, pacata e noncurante; parlare delle solfare e degli allucinati tormenti della carne come di cose risapute e ristucche, far parlare gli zolfotari e le avventuriere come uno zolfataro o una avventuriera qualunque. Smontare ogni cerebrale qui pro quo, svelare tutta l’aridità di molte farse metafisiche; togliere la cornice al giovane teatro per appenderlo in quella del solito boccascena: e mostrarlo qual’è. Queste sarebbero imprese sacrosante e stupende/ — Con le tue ironie nè P Antoine nè il Coprati non sarebbero riusciti a nulla.

— Il cosidetto vecchio teatro con tutte le sue fronde storico-decorative — che io disprezzo, ma non eccessivamente — ha radici saldamente infisse nei gusti del pubblico che l’alimentano; e non crediate di poterli mutare offrendogli qualche mediocre spettacolo che talvolta lo delude, talvolta lo disorienta, ma che lo fa poi sempre, tornare più fervido alle sue antiche passioni. Berciò, non conosco teatri meno d’eccezione del Teatro Libero, del Teatro d’Arte, del Vieux-Colombior e def/’Indipendcntc.

— Ma anche noi...

— Non è vero. Ber voi sarebbe un successo il riuscire a decorare la vostra sala come quella d’un tabarin o d’un bar americano: e il darci delle luci e delle scenografie degne d’un bar a■ Lo Chopin della letteratura russa > lo definì la Koltonòvskaja. E Concetto Pettinato, nel suo libro su • l.a Russia e i Russi nella vita moderna», gli attribuì come qualità dominanti il lirismo delicato, la malinconia dolce, la musicalità dello stile, la femminilità del temperamen.

to, la tendenza alla rassegnazione e. alla rinuncia:

tutte qualità che lo renderebbero in grado notevole rappresentativo dei suo popolo. Questi giudizi, che sono del 1914, non esauriscono l’arte di Zàjtsev — la cujxi e selvaggia tragicità utnana del racconto di lupi che pubblichiamo n’è forse una prova — ma sono, in complesso, esatti. Zàjtsev non è il poeta della lotta, della ribellione e dell’azione; è piuttosto quello della intimità dolorosa o gioconda, dell’idillio sereno e della nostalgia contemplativa, del dolore chiuso e della gioia espansiva, deliti felicità a cui bastano un raggio di sole e una fiamma d’amore, spesso delle passioni che si placano in una sfera più alta di rinuncia e di conciliazione.

Boris Zàjtsev ha 45 anni, essendo nato nel 1881 (ad Orjòt; uno dei cèntri, con Mosca e Tuia, di quella regione ch’egli stesso chiamò s la Toscana russa»). Pubblicò il primo racconto a vent’anni. Un suo volumetto di novelle assai varie, dal quale son tolti «/ lupi», fu stampalo nel 1906 dalla casa Scipòvnik, editrice, poi, dei dei famosi •Almanacchi le iterar io-artistici», ai quali Zàjtsev eollaborò assiduamente, anche con la versione di • Coeur simple» di Flaubert. Parecchi altri volumi di racconti, in jxirte di soggetto italiano, un volume di ricoidi d’Italia e un romanzo, «Terra lontana», jmbblicati sopratutto dall’editore Orzebin, ap/iarvero successivamente.

Dal 1921 circa, Zàjtsev vive all’este.

ro, collaborando alle riviste russe così dette • dell’emigrazione», specie alle, monumentali «Sovremònnyja Zapìski» (• A mia li Contemporanei») di Parigi, da ultimo con una bella ne.

lubnrazione della leggenda cristiana e romana di S. Alessio •Uomo di Dio», tanto popolare in Russia ancora oggidì quanto nella Francia del Medioevo. Mei 1925 lo troviamo in Provenza.

Presentemente dev’essere a Riga, direttore letterario della rivista * Perczvòny» (• Lo scampanìo»).

Di lui si hanno in italiano, oltre a • La morte», già citata, • La sorella * e / campi e> lisi», infitte uno studio su • La letteratura russa contemporanea», tutte traduzioni del Lo Gatto (rispettivamente in •Deltas, Fiume, 1923, ri. 5; «Mezzogiorno», Napoli, novembre 1923; a Russia», Roma, 1923, n. 3-4). Di Zàjtsev pubbli, cherà un volume di racconti scelti la nuova casa editrice a Sin via» di Torino.

Durava già da una settimana Quasi ogn* giorno li accerchiavano c prendevano a fucilate.

Scarniti, coi fianchi pendoli, dei quali sporgevano irosamente le costole, con occhi intorbiditi, simili a non so che fantasmi sui bianchi gelidi campi, essi s’insaccavano senza criterio dovunque capitasse, non appena venivano stanati, e si buttavano insensatamente qua là, aggirandosi sempre nello 9tesso luogo. E i cacciatori sparavan loro addosso con sicurezza c precisione.

Di giorno s’appiattavano pesantemente nei cespugli che avessero solo un po’ di folto, singhiozzavano di fame e si lambivano le ferite, ni a la sora si riunivano in branchi e vagavano l’un dietro l’altro per gli sconfinati campi deserti.

Un cielo cupo imbronciato pendeva sulla neve bianca, ed essi si strascicavano torvi verso questo cielo, che fuggiva, però, senza po9a da loro ed ora sempre ugualmente lontano e fosco.

Nei campi era greve ed uggioso.

E i lupi s’arrestavano, s’accovacciavano c prendevano ad urlare; questo loro urlo, stanco e malaticcio, strisciava sui campi, moriva alla distanza di una versta o di una versta e mezza, e non aveva la forza di volare in alto verso il cielo e di gridare di là la loro fame, le ferite ed il freddo.

n.

Era sera. Soffiava un vento sgradito o faceva freddo. La neve era rivestita d’una crostnrclla secca e dura, che appena scricchiava ogni qualvolta una zampa di lupo vi si posava sopra, e mi lievo nevischio gelido innalzava serpentelli di fumo su quella crosta, spruzzando ridevolmentc i musi e le scapole dei lupi. Ma uc%’e, non ne veniva giù, e non era troppo buio: dietro le nuvolo sorgeva la luna.

Come sempre, i lupi si trascinavano l’un dietro l’altro: alla testa un bigio o cupo vecchio, mcricano o d’un tabarin. Troppo poco, caro Silva. A meno che non jtossiate rivelarci dei nuovi poeti, dei nuovi attori e dei nuovi scenografi.

L’aveva accomjmgnato fino alla porta. Il Silva scese le scale un pò dubbioso e impensierito.

Dal Lembo non aveva mai sperato gran che:

ma la sua fede era scossa, hi quella /tortila •eccezione»

ora presentiva l’ostile compatimento che lo sita impresa avrebbe incontrato in quella città, in cui Parte non aveva mai avuto grandi risonanze; e pensò che, invece tPun teatro d’tecezinne, sarebbe stato meglio accolto un teatro sperimentale. Tanto più che, per fortuna, in quella città ancóra non c’era.

Mario Gromo.

zoppicante per la mitraglia ricevuta in una zampa; gli altri, torvi c scorticati, cercavano con ogni cura di avanzare sulle orme dei procedenti, per non affaticare le zampe sulla crosta sgradita e tagliente.

Strisciavano, come chiazze 3cure, lungo i cespugli, lungo i vasti pallidi campi, sui quali il vento 3i sfogava in tutta libertà, e ogni arbusto solitario sembrava enorme e terribile: chissà se non avrebbe spiccato un balzo, se non si sarebbe messo a corrore, c i lupi rinculavano rabbiosi, o ciascuno non aveva che un pensiero:

«fuggire al più presto 1 ci lascino pur tutti la pelle, purché* io 1a scampi!»

E quando in punto, facondo irruzione in certi orti lontani, essi ti imbatterono ad un tratto in un paletto che sporgeva dalla neve, con sopra un cencio diaccio, disperatamente maciullato dal vento, tutti, come un lupo solo, scavalcarono il vecchio zoppo, sbandandosi in varie direzioni,e frammenti di crosta volarono via di sotto alle loro zampe, scivolando con frusoio sopra la nove.

Poi, quando si furon raccolti, il più alto e magro di tutti, con il muso allungato e gli occhi dilatati dal terrore, si sedette òn modo goffo o strano sulla neve.

— Io non vado più avanti — diceva ogli singhiozzando o battendo i denti.

— Io non vado più, intorno è bianco... intorno è tutto bianco... non altro che neve. Questa è la morte. E’ la morte questa!

Ed egli accostò l’orecchia alla neve, come ascoltando:

— Udite!... — disse.

I più sani e più forti, che, del reato, tremavano anch’essi, gli gettarono una occhiata di sprezzo e si trascinarono oltre. Ma egli continuava a sedere sulla neve e ripeteva:

— E’ bianco intorno... ò tutto bianco intorno..

Allorché si furono inerpicati su per una lunga erta senza fine, il ventò fischiò ancor più tagliente alle loro orecchio: i lupi si raggricciarono, fermandosi.

Dietro le nuvole era salita in cielo la luna, c, in un punto di esso, s’infoscava una macchia gialla opaca, che strisciava incontro alle nubi:

il suo riflesso cadeva sulla neve e sui campì, o v’era un che di trasparente c di malaticcio in quella mezza luce liquida e lattea.

Tu basso, in fondo al pendio, il villaggio appariva come una chiazza; qua e là scintillavano i lumi, o i lupi respiravano rabbiosi le esalazioni dei cavalli, delle mucche, dei maiali.

— Andiamo là, andiamo! — dicevano i giovani — fa tutto lo stesso... andiamo! — E sgretolavano i denti, agitando voluttuosamente le naificc.

Ma il vecchio zoppo non permise.

Ed essi si strascicarono lungo il colle, allontanandosi, e poi di sghembo per un valloncello, incontro al vento.

1 due ultimi lanniarono ancora una lunga occhiata ai timidi lumicini c al villaggio, digrignando i denti:

•— Uh, uh, maledetti, — mugolarono — uh, uh, maledetti!

ITI.

I lupi andavano al passo. T,e nevi inanimato li guardavano coi loro pallidi occhi, qualcosa dall’alto mandava cupi riflessi, in basso scrosciava irosamente la sizza, scorrendo a zig-zag sulla crosta della neve, e tutto ciò aveva un aspetto come se là, nei campi, si sapesse con certezza che non v’ora luogo dove alcuno potesse fuggirò, e che non si poteva nemmeno cor.

rerc, ma bisognava star fermi, lincrtti, ed ascoltare* E ora parve ai lupi che il compagno rimasto indietro avesse ragione, che il bianco deserto, in realtà, li odiasse; che li odiasse perchè erari vivi, correvano, scalpicciavano, impedivano di dormire; sentivano che esso li avrebbe fatti perire, che ni era disteso, interminabile, per ugni dovo o li avrebbe afferrati, seppelliti dentro di se. Li invase la disporazione.

— Dove cì conduci? — domandavano al vecchio.

— Conosci In la stradai Ci portarmi.in qualche luogo? — Il vecchio taceva.

Ma quando il più giovane e sciocco dei lupatti si mise con particolare linqistcnza a muovergli quelle domando, ogli si voltò, lo guardò cuj>o e di ’botto, con una specie di collera concentrata, gli diede, in risposta, un morso alla nuca.

Il lupatto guai o si scostò, offeso, d’un balzo, affondando sino al ventre nella neve, che sotto la crosta era cXaccia e friabile. Vi furono anche alcuno risso: crudeli, inutili e incresciose.

Una volta i due ultimi rimasero indiotro, e sembrò loro che la miglior cosa fosse sdraiarsi e morir sùbito; essi si misero ad urlare dinanzi alla morto, che lor pareva imminente; ma, quando quelli che li precedevano, e che ora si cran messi al piccolo trotto in direzione laterale, si furon ridotti ad una specie di filo nero elio appena osoillava e tratto tratto spariva nella neve lattiginosa, i duo solitari sentirono tale un orrore o uno sgomento, sotto a quel cielo che cominciava, in mezzo agli spruzzi di neve, proprio al di sopra dello loro tosto e si stendeva da ogni parte, fra i sibili del vento, che entrambi raggiunsero al galoppo, in un quarto d’ora, i compagni, benché i compagni fossero zannuti, famelici e furiosi.

IV Mancava ancora un’ora o mezza all’alba. I lupi stavano in branco intorno al vecchio. Da qualunque parto egli si voltasse, non vedeva che musi aguzai, occhi rotondi sfavillanti, e sentiva che pendeva su di luti qualcosa di cupo o d’opprimente, qualcosa che, so appena avesse fatto un movimento, sarebbe crollato, schiacciandolo.

Dovo siamo? — domandava qualcuno di dietro con voce bassa, soffocata dal furore.

— Ebbene? Quand’ò che arriveremo iu qual, che luogo?

— Compagni, — c’cccva il vecchio lupo, — ùutorno a noi stanno i campi: essi sono immensi 0 non se no può uscire d’un trutto. Credete forse ch’io conduca voi e me stesso alla rovina?

10 non so con certezza, è vero, dove dobbiamo andare. Ma chi mai lo sa?— Egli tremava, nel parlare, o si guardava inquieto ai lati, e questotremito iu un riBpcttabilo vecchio canuto era penoso c sgradevole.

— Tu non sai, non sai, — gridò ancora quella stessa voce selvaggia ed immemore. — Tu devi sapere! — Ed il vecchio prima che avesso avuto 11 tempo d’aprir la bocca, sentì qualcosa d’ardente c di aguzzo sotto la gola; a mozzo palmo dal viso gli lampeggiarono due occhi gialli, accecati dal furoro, e immediatamente compreso ch’era perduto. Diecine di consimili zanne aguzze e ardenti ai conficcarono ’in lui come una unica zanna, gli squarciarono e strapparono i visceri, gli staccarono brani di pelle; tutti si confusero rin una sola palla che rotolava per terra, e lutti serravano le mascelle al punto che ( denti stridovano. La palla ruggiva, c a tratti vi luccicavano dentro degli occhi, vi balenavano donti, musi insanguinat/i. L’odio e l’angoscia, che si esalavano da quei magri corpi lacerati, s’alzavano da quel luogo come una nube asfissiante, che nemmeno il vento poteva disperdere.

Ma il sinibbio cosparse ogni cosa d’un nevischio minuto, fischiò schernevolmente, c si portò pjù lontano, ammucchiando la neve in morbidi cumuli.

Era buio.

Dicci minuti più tardi tutto era finito’.

Volteggiavano sulla neve ciuffi di peli strap, pati, chiazze di sangue fumicavano lievemente;, ina ben presto la sizza spazzò ogni cosa, o dalla nove non spuntava più che una testa coi denti digrignati e la lingua divorata; rocchio spento, opaco, si congelava, diventando un ghiacciolo.

1 lupi stanchi si sbandavano in vari sensi; si allontanavano da quel posto, s’arrestavano, guardandosi in giro, e senza rumore proseguivano il loro vagabondaggio; essi andavano d’un passo lentissimo, e nessuno sapeva dove c perché andasse. Ma qualcosa di orrendo, a cui non era.

dato accostami, aleggiava sui resti del loro condottiero v li spingeva incessantemente lontano nella gelida oscurità; l’oscurità li avviluppava e la neve ne cancellava lo tracce.

Due giovani s’erano diatesi sulla neve a una cinquantina di passi l’uno dall’altro e giacevano inerti come coppi: essi si succhiavano le basette insanguinate e le gocciole rosso sui baffi s’indurivano, diventando ghiaccioli; la neve li pcrcotova sul muso, ma essi non si voltavanodalla parte dove non tirava il vento. Anche altri s’erano sdraiati sparpaglintamonte o giacevano.

Ma presero jx*i di nuovo ad urlare; ora, però, ciascuno urlava per proprio conto e, se uno di essi, vagando, inciampava nel compagno, si volgevano entrambi in direzioni opposte.

In diversi puntti si levava ora dalla neve la loro canzono, ma il vento, che s’era scatenato e gettava contro a loro fianchi interi banchi di nove, con rabbia o scherno la sminuzzava, la lacerava, scaraventandola in tutti i senni. Nulla si l’otova scorgere nella tenebra, c pareva che i campi stessi gemessero.

(Versione dal russo di Alfredo Poliedro).

Boris Zàjtsev.

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Direttore Responsabile Piero Zanetti Tipografia Sociale - Pinorolo 1926 “I LUPI „ novella di Boris Zajisev