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Pagina:Il Baretti - Anno V, n. 1, Torino, 1924-1928.djvu/1

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IL BARETTI

Fondatore PIERO GOBETTI 1924-1926

MENSILE EDIZIONI DEL BARETTI: Via Prati, 5 TORINO

ABBONAMENTO PER IL 1928 L. 15 Estero L. 50 - Sostenitore L. 100 - Un numero separato L. 1 CONTO CORRENTE POSTALE

Anno V - N. 1 - Gennaio 1928


SOMMARIO - S. CARAMELLA: Manzonianismo - L. GINZBURG: Aspetti dilla nuovissima poesia russa - Sciocchezzaio - C. NECCO: Arnolt Bronnen - E. SOLA: In Germania: prigionieri e lupi di steppa - La pagina regionale: B. CROCE: V. G. GALATI: Gli scrittori della Calabria - F. G.: Cose dì'arte in Piemonte: La Cappella dal Santo Sepolcro in Saluzzo - L’Alfieri a Torino - Critici e poeti: Foscolo e Dante.


MANZONIANISMO

Consideriamo il manzonianismo come un problema ancor vivo e presente: esso è tuttavia caratteristico della letteratura e della cultura italiana del primo quarto del Novecento come fu proprio della seconda metà dell’Ottocento. Solo che oggi non si usa più prender partito pro o contro il Manzoni, ma si constata e si accetta la presenza dei manzoniani come un dato di fatto: e insieme si accoglie con una specie di devota benevolenza la rinnovata diffusione dello spirito manzoniano in Italia, come una giusta rivendicazione di quei principi e di quei valori che vent’anni fa per un verso o per l’altro l’idealismo e il futurismo, l’imperialismo e il realismo avevano ricacciato indietro, molto indietro, fino a un ristretto periodo storico che solo poteva essere stato il loro legittimo dominio. Per rifarsi, i manzoniani ora si accampano in buone posizioni della critica e dell’arte narrativa; e tutti ci sentiamo volentieri un po’ manzoniani. Svanito il tribunizio impeto di Enotrio, pacatasi la febbre del superuomo, siamo arrivati ad una tranquilla agnizione che ci rende nipoti in primo grado del creatore di Renzo e Lucia.

Quanta parte vi possa avere il nostro stato d’animo non è il caso di dimostrare: e nemmeno come vi possa entrare l’inversione di tendenze tutt’altro che manzoniane. Basta riflettere che si ritorna oggi a Manzoni, ma non si ritorna a Leopardi.

Io non sono, diro subito, dei più teneri verso questo indirizzo: né sono manzoniano. L’una e l’altra cosa precisamente in proporzione inversa della mia stima estetica e pratica del Manzoni. Ma poiché di questa stima non credo necessario dare chiarimenti né prove, ritengo opportuno di fare, oggi, qualche osservazione critica su codesto manzonianismo. Sotto un titolo apparentemente così preciso s’intendono e si congiungono in realtà indirizzi, atteggiamenti e sentimenti affatto diversi e disparati: come possono essere l’imitazione dell’umanità manzoniana, la prosecuzione del suo pensiero, l'assimilazione del suo stile, o infine un rinnovato gusto per le sue stesse preferenze poetiche. Contro tutte queste varie forme di scuola manzoniana io credo sia bene il caso di reagire.

L'uomo Manzoni fu invero un esempio caratteristico di compenetrazione del pensiero e della vita: ma di tal pensiero e di tal vita, che ammirevoli in lui sopratutto per il grado della sintesi, non suscitano più una schietta ammirazione quando si contemplino trasformati in tipo umano, in carattere storico, o in altra qualsiasi specie di modello astratto. La stessa profondità con cui egli visse il suo cattolicismo secondo il suo temperamento di stretto consequenziario finiva per essere un’alienazione ai doveri di una coscienza profonda qual’era la sua. Si costruì con paziente e convinta elaborazione un mondo così perfetto di sicuro credenze, che era in grado di impicciolire e vanificare per semplice confronto qualsiasi fatto, anche grave, della vita. Per tal modo non patì molto, non si accorò profondamente della tragica e dolorosa sorte della prima e più cara famiglia: morirono presto a quest’uomo, senza pietà per il suo intimo bisogno di affetti domestici, la moglie, le figlie i figli; ma morivano per andare dove tosto egli li avrebbe ritrovati, e per un disegno provvidenziale che la sua miseria umana non poteva comprendere ma che la sua fede affermava, la sua ragione argomentava. Fallirono più volte i tentativi d’indipendenza del suo paese, i suoi amici percorsero le vie dell’esilio o abitarono le dure prigioni di sua maestà d’Absburgo, il suo cuore sofferse a lungo l’obbligo del silenzio e il dolore di insoddisfatte e sincere aspirazioni: egli si sostenne sempre in una chiusa fermezza di cattolico rassegnato ai voleri di Dio e coscientemente convinto della debolezza umana e delle umane miserie. Nessun grave scrupolo lo spinse mai a cercar di fare qualche cosa per vincere il destino, per giustificare la sua vita tranquilla e raccolta: come era proprio di chi si sentiva pieno di grandi, sebbene oscure o tormentose verità. Allo stesso modo, umano o troppo umano che dir si voglia, ebbe sempre cura di molte piccole e piccolissime cose, non credendo che gli fosse necessario disprezzarle por essere grande. Ma, intanto, Manzoni non aveva in tutta la condotta della sua vita nessuna preoccupazione di servire di modello agli altri, nessuna aspirazione a farsi pontefice. Poi, prima di trarre da lui regola e norma per noi, bisognerebbe essere sicuri di essere pari a Manzoni. Tutte le vite dei grandi presentano questo pericolo, non avvertito ancora dagli esaltatori di Plutarco; che per seguire le orme della loro grandezza si ritengano praticamente scusabili i loro difetti, e si tragga dalla considerazione della loro fama imperitura la speciosa illazione che sia lecito peccare come essi peccarono. Perché certamente oggi esser manzoniani in questo senso vuol dire peccare: anche contro Manzoni.

Manzonianismo, in secondo luogo, come stile Sereno e delicato possesso della parola, accorto dominio dell’espressione e più ancora delle suo pieghe, delle sue pause. Placido svolgimento del discorso, come in riposata conversazione, con rattenuta enfasi, con significanti respiri; le frasi e i tratti più salienti sempre incorniciati in modo da smorzare le tinte troppo vive, da arrotondarne gli angoli, e da sostituire all’effetto che viene dal distacco l’effetto del riverbero, che fa meno chiasso ma resta più durevole o sierro. Dietro ogni più semplice elemento espressivo, tutto un lavorio di penosa e sottile ricerca stilistica sedato in una gran calma, in una omerica bonaccia e in fronte, una continua richiesta di collaborazione all’intelligenza del lettore, non per un arduo o oscuro cammino, ma per un esercizio di finezza che lascia come una pacifica coscienza della penetrazione in seno alla vita. Tutti i manzoniani d’oggi, dal Linati al Bacchelli, hanno sentito la profonda seduzione di questo regno della signorilità letteraria: e non pochi al punto che si sono convertiti senza sforzo a questa moderata e nobile eleganza da una primitiva condizioni di cultori della pura forma. Ora, bisogna stare in guardia contro il pericolo di questo stile estraniato dal mondo poetico di cui esso propriamente fa parte e con cui si trova consustanziato. Tradotto in tecnica esso rappresenta un pericolo grave di virtuosismo e di ricerca del meraviglioso nella semplicità, che certamente non giova alla fortificazione della nostra prosa. Il suo solo impiego legittimo sarebbe per ripetere dal più al meno ciò che ha già detto il Manzoni: ed è evidente che il ripetere non conta. Usato, come viene usato, per rinfrescare o atteggiare più opportunamente un’inspirazione realistica o impressionistica, esso dà luogo a curiose e abili combinazioni, non vere e proprio opere d’arte. E, in fondo, i manzoniani migliori se ne liberano al possibile, paghi di conservare un certo arieggiamento e una certa risonanza dell’arte del maestro che corrisponde a tenui legami di consanguineità spirituale. Nei nostri tempi, da chi sente fortemente i problemi dell'arte, si ricerca una prosa robusta, asciutta e nervosa, piena di pensiero, attillata sopra i movimenti della riflessione e del dubbio e dell’affermazione, lampeggiante di idee incise e di visioni scolpite: più che modellare e plasmare, occorre costruire.

Se veniamo, infine, a guardare un po’ contro luce il manzonianismo come sistema d’idee e il mondo fantastica in cui queste idee si presentano rielaborate e incarnate o da cui esse prendono le mosse: siamo qui meno che mai proclivi ad essere manzoniani. Pochi altri argomenti possiamo trovare così aperti a largo o ricco svolgimento di opera critica, quale ad esempio ci ha dato ora il Galletti in due densi e suggestivi volumi; ma pochi campi così insidiosi per una buona fermentazione di coscienza pratica della vita e dei suoi problemi. Il giansenismo che insiste sulla debolezza umana, sull’impotenza della volontà, sull’inevitabile rovina delle nostre opere se non sono assistite e guidate da una mano divina: una valutazione morale che coltiva la speranza dei rassegnati che mantiene continuamente tesa — e perciò indulgente — l’aspettazione del bene che può uscire in ogni momento dal male; una pacata e bonaria vena di scetticismo che vuol mitigati gli ardori e le passioni generose, perdonati agevolmente i convertiti, temperate le rigide esigenze della legge che parla in noi: tutti questi indirizzi non sono per questo mondo in cui viviamo e in cui vogliamo operare trasformandolo secondo noi stessi. Preferiamo la volontà eroica dell'Alfieri o la disperazione profonda di Leopardi a codesta acquiescenza velata di saggezza e di intelligenza, e anche alla sottile e celebrale casiatica con cui essa riesce a trasformarsi in sistema. Non sarà, questo, il pericolo di Manzoni, ma certo è il pericolo del manzonianismo.

SANTINO CARAMELLA.


Aspetti della novissima poesia russa

Si racconta che, durante la Rivoluzione, il popolo parigino, ammesso a visitare la casa del Beaumarchais, si sia comportato col rispetto e con l’educazione più irreprensibili. Chi torna dalla Russia adesso, riferisce con compiacimento come in tutt'i musei si possan vedere comitive di operai e di contadini, che girano silenziosi per le sale prendendo appunti. Questo però non vuol dire che l’arte si avvicini maggiormente al popolo nei periodi di rivoluzione: ma soltanto che, siccome allora i partiti se ne servono come mezzo di propaganda, è più facile che alle manifestazioni artistiche partecipi un pubblico più vasto di quello dei periodi normali. Onde anche i poeti così detti bolscevichi non sono più vicini di altri agli operai e ai contadini che formano la maggioranza del pubblico alle loro letture di versi, se non perchè portano lo stesso loro vestito. Giacche studiatissimo è il fare popolareggiante di quelle poesie. L’Esénin, che era un contadino e la sapeva lunga, raccontava agli amici con un sorriso malizioso e furbesco che non aveva mai portato vestiti così miseri al suo paese come ne portava per andare a far visita ai critici cittadineschi; e nei suoi versi cominciò a proclamarsi teppista - chuligan - («sputa, o vento, a bracciate di foglie, - io sono un teppista come te») soltanto quando glielo suggerirono i giornali, e il pubblico lo pretese.

E del resto tutta la novissima poesia russa ha correnti che le son parallele nell’Europa occidentale ed è poesia essenzialmente colta. Ci illumina in proposito un libro, pubblicato a Leningrado nel 1927 da Anatolij Mariengof — «Romanzo senza bugia» — dove sono copiose le notizie sulla «bohème» russa degli anni passati, con rivelazioni preziose sui retroscena della vita artistica e sul carattere dei vari poeti. Il Mariengof stesso è stato l’alfiere degl’immaginisti. Essi dapprincipio furono rappresentati dai giornali russi come pazzi o perlomeno come stravaganti: ma sostenevano semplicemente che il linguaggio è opera di poesia, immagine, e sull’immagine fondavan le loro creazioni. Capitolo XVIII della Estetica del Croce: «identità di linguistici ed estetica»? Si sarebbe tentati di dire che sì.

A contendere il campo agl’immaginisti è Kljñev con i Russijànje: nel nome è detto tutto, giacché, pur volendo dire «Russi», ha un che d’antiquato di solenne e di patriarcale a un tempo, come chi in francese dicesse alla settecentesca russiens invece di russes. Sono per le tradizioni paesane, per il linguaggio pittoresco dei contadini: in una parola, Strapaese. Quegli che è stato il maggior poeta russo di questi ultimi anni, Serghijéi Esénin, fu prima con gli immaginisti, poi, prima di morire, con i Russi, e non si può dire dove si sentisse più a suo agio: andò con i Russi quando il suo spirito era già ottenebrato dall’alcool e reso caotico dall’avventura con Isadora Duncan; e fu mosso, pare, anche dal desiderio di farla da dittatore in quel gruppo; ma non potè mai aderire compiutamente nemmeno alle idee degl’immaginisti: non apprezzava come loro l’«Europa», cioè l’Europa occidentale: diceva che vi avevan dato l’anima in affitto «perchè inutile»: e il Mariengof lo accusa d’aver capito come fossero invecchiate e giù di moda e «usate» le teorie culturali ultranazionalistiche, che dopo lo zarismo anche il comunismo bandiva, senz’avere avuta la forza e la decisione di abbandonarle per «trovare un nuovo mondo interiore».

Ma forse Serghjéj Esénin sfugge alle classificazioni appunto perché è un poeta vero. Non è, perciò come misoneista ch’egli vede con terrore l’avanzarsi minaccioso della Macchina che sta per soffocare la Vita, di cui scorge il simbolo in un episodio d’un suo viaggio nel Caucaso che lo riempie di malinconia: «un puledro rincorre il treno, e per un buon tratto gli sta a paro, poi deve cedere a poco a poco dinanzi al cavallo d’acciaio». E’ il poeta che si lamenta, nella lettera in cui il fatto è narrato: «la storia attraversa un’epoca di mortificazione della personalità come di quel ch’è vivo». Tutti i poeti potrebbero sottoscrivere. Dunque nè la rivoluzion nè il bolscevismo hanno straniato i poeti russi dalle correnti del pensiero europeo, e i loro tentativi e i loro risultamenti, pure sbocciati spesso all’infuori di ogni diretta influenza occidentale, trovano rispondenza nei tentativi e nei risultamenti, poniamo, italiani; nè, d’altra parte, i fenomeni politici si son riflessi sulla poesia.

Se ce ne fosse bisogno, questo dimostrerebbe un’altra volta che la nostra cultura è europea, e dipende più che dalle contingenze interne variabili dei popoli, dal comune clima intellettuale in cui vivono quasi involontariamente i creatori, i poeti: anche quelli che, come Serghijéj Esénin, leggono «Madame Bovary» quando son già celebri e che un viaggio all’estero rovina e sconvolge tanto moralmente quanto fisicamente. Possiamo dire, perciò, che non esista una poesia che sia prodotto tipico della rivoluziono russa: benché sia doveroso notare come le condizioni di vita radicalmente mutate abbian reso più russo lo stile, prima sempre un po’ classicheggiante, e abbian soppresso molte formule e molta retorica, facendo dare la precedenza alle immagini più umili o perciò tanto più giuste e — nella «letteratura» — impensate. Non poesia bolscevica ma poeti, numerosi, veri, malgrado s’appiccichino etichette di scuole; che lottano contro la difficoltà e la miseria, ma non si arrendono.

Come Velèmir Chljèbnikov, che a Chàrkov di giorno faceva il ciabattino, per vivere, e di notte, non avendo petrolio per la lampada, «imparava a scrivere al buio»; ma quando per la prima volta ebbe scritto così un centinaio di versi, venne l’alba, e nelle righe che s’accavallavano e s’intersecavano nemmeno lui potè più capir nulla: — un poema... ecco, peccato:.. — disse, agli amici Mariengof e Esénin venuti a trovarlo: — via, non è nulla.... imparerò, al buio.....

LEONE GINZBURG.


Sciocchezzaio

Papini, i monasteri e altri edifici cittadini

«I maggiori edifici, che fanno d’una città una città, appaiono aggregazioni di carceri. Non solo la carcere degli espianti, ma tutto è prigione: la reggia, prigione dei principi; il ministero, prigione degli scribi; la fabbrica, prigione dei salariati; la scuola, prigione degli adolescenti; la caserma, prigione dei giovani; l’ospedale, prigione dei feriti; il manicomio, prigione dei posseduti; l’ospizio, prigione degli abbandonati; il bordello, prigione delle Vendute; il monastero, prigione dei penitenti».

G. PAPINI - Accuse alla città - Gazzetta del Popolo, 10 gennaio 1928).

Anche gli eremiti più santi erano, si sa, tentati dal demonio; il demonio di Papini è il demonio della retorica ed è così insidioso, che anche i più fedeli cattolici perdoneranno allo zelante correligionario di essere ancora una volta stato vinto dalle sue tentazioni e di avere scambiato un monastero per una prigione.

Ardengo sol contro Germania tutta

«E’ necessario indicare con un termine ognuna di simili aberrazioni! L’ugonottismo, il giansenismo, il modernismo, il misticismo, l’occultismo l’idealismo, il razionalismo, il materialismo, il superomismo, il pragmatismo, il socialismo, il comunismo, il nichilismo, il romanticismo, il naturalismo, il simbolismo, il decadentismo, ecco i nomi di alcune fra le principali manifestazioni della stessa infermità, della stessa privazione di quella gioconda e splendida salute che fu nostra per secoli o secoli.

Ho detto che questo avvenne via via e con moto sempre più accelerato dalla fine del medioevo agli anni della guerra, epoca in cui la contaminazione pareva aver raggiunto il suo massimo. Ma ho detto anche in principio che, contrariamente a quanto si poteva arguire o sperare, nè durante la guerra nè dopo, il triste fenomeno cessò, ma che anzi continuò con virulenza crescente e tanto da sgomentare. E difatti, basta gettare uno sguardo indietro per questi ultimi lustri per esser convinti che, malgrado le apparenze, lo spirito tedesco domina sovrano in tutte le espressioni significative della vita europea, siano esse di natura religiosa, filosofica, politica, morale od estetica».

(A. SOFFICI - La Germania vittoriosa - (Gazzetta del Popolo - 15 gennaio 1928).


L’ardore combattivo porta evidentemente Soffici a combattere non la Germania soltanto, come Egli crede, ma tutta l’Europa.