Pagina:Il Buddha, Confucio e Lao-Tse.djvu/237

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166 parte prima

siderato come la cagione del Rûpa e del Nâma? — «Noi vediamo» séguita l’autore citato, «che il corpo umano ha il suo principio nell’utero materno, e vegeta e si sviluppa in quell’angusta prigione, in mezzo a vene, nervi, muscoli, sangue; alla guisa del verme e dell’insetto, che si formano nelle sostanze putride, o nelle putride acque stagnanti. Ma ciò non è da tenersi come la cagione reale di corpi viventi».1 — L’origine degli esseri viventi sta in una serie continuata di cause e di effetti, che i Buddhisti chiamano Nidâna, e che stiamo ora per esaminare. La dottrina delle dodici cause o Nidâna è antichissima; e appartiene forse alla prima età del Buddhismo. Essa forma la base della Ontologia e della Metafisica buddhica; come le Quattro grandi verità formano la base, su cui riposa tutto il sistema della morale. Non è probabile che Çâkyamuni, nella sua predicazione, la quale fu semplice e tale da poter esser intesa anche dal volgo, abbia egli stesso formulato, questa dottrina, nella maniera in cui la conosciamo oggi; ma è più verisimile che, trovatisene i germi sparsi qua e là, nelle sue istruzioni, i suoi immediati discepoli abbiano immaginata questa teoria; la quale infatti presenta i caratteri d’un sistema elaborato in una scuola filosofica.

Dodici condizioni, effetti e cause a lor volta le une dell’altre, operano vicendevolmente per produrre la vita. Tutti gli esseri, così ragiona la filosofìa buddhica, sono condannati a deperire, invecchiare e morire; la vecchiezza e la morte (Jarâmarana) è dunque il fine, la meta della vita. Ma se l’uomo non fosse nato, egli non invecchierebbe, nè perirebbe, dunque la vecchiezza e la morte (Jarâmarana) non è che un effetto, di cui la causa


  1. Bigandet, p. 462.