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IL ROCCOLO

Tra’ canneti s’appiatta e tra le spine:
Quivi di lei, del cielo amaramente
Duolsi, e il candido viso, e l’aureo crine
L’amoroso pensier novellamente
Gli pinge in sì leggiadro e vivo aspetto
Che dal desio già sviene, e dal diletto.
     Mosso a pietate allor del caro figlio
Il Nubadunator, Erote invia
Alla Dea, che lo scorso alto periglio
Rimembrando tuttor l’aere fuggia:
Egli all’aurato stral dato di piglio,
Cui non è gentil Alma unqua restia,
Glielo scocca di botto in mezzo al core,
Onde sent’ella omai l’ignoto ardore.
     Rammenta allor del nume il rubicondo
Volto, nè più tanto l’abborre e sdegna:
Quinci del nuzial stato giocondo
In sua mente l’immagine disegna:
Palpitando però, dal più profondo
Del cor teme e sospira; e pur s’ingegna
Anche di superare in se la casta
Vergogna, che ad amor sola contrasta.
     Ma d’Urania il figliuol pel ciel sereno
Già scuotendo venia la sua facella;
E la Ninfa, cui tutto avvampa il seno,
Tragge Amor dove Bacco a se l’appella.
Di ciò ch’indi seguì, nè più nè meno,
Soverchio, amici, è che vi dia novella.