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DEL FRANCO. 121

CVII.


Mentre che i dumi e le mal’erbe ancide
     D’Arezzo l’ortolan Divo onorato,
     Nè può godere il frutto disiato,
     4Dice qual uom, che per morir si sfide.
Lappole all’orto mio nimiche infide,
     Per cui langue ogni rastro, e pur piegato
     Il vomer resta, che nel solco entrato
     8Per l’erbroso terren s’inaspra e stride.
A voi non rida il Sol, ma pigro gelo
     Di freddo scorno vi ricopra il volto,
     11Nè il vostro dritto unqua vi renda il cielo.
Poichè il giardin rendete ispido e folto;
     Nè resta mai che per cangiar di pelo,
     14E per ben coltivar non paja incolto.


CVIII.


Lasso, che mille zappe al mio terreno,
     (Dice d’Arezzo l’ortolan piangendo)
     Tengo d’intorno, e mille rastri offendo
     4Con mille aratri per squadrargli il seno.
Neppur gli stecchi in mezzo a solchi meno
     Vengon mai per usanza, e sol comprendo,
     Ch’ove più sudo all’opera e m’accendo,
     8Meno la terra (oimè) spetro e mal sveno.
Felice agricoltor, che domi altiero
     Le dure zolle, e le mal nate piante,
     11E nel domarle hai più felice impero,
Io, per sudor d’aspre fatiche tante,
     Che spero omai, se di trovar dispero
     14Vomeri di diaspro e di diamante?