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86 IL BUON CUORE


La Religione Cattolica

e la questione Sociale

Un’importante considerazione che ci fa vedere negli effetti della civiltà cristiana la verità, la grandezza e l’utilità del Cattolicismo, è ai miei occhi ciò che la Chiesa fa ora in pro della questione sociale bene intesa e bene amata. Non mancano è vero nei nostri tempi non pochi, i quali accecati da passioni giudicano, sia pure in buona fede, che la Chiesa cattolica avversi quell’accrescimento di beni materiali nel popolo, e quell’avvicinamento e affratellamento dei diversi ordini sociali, che ha preso il nome di socialismo. Ma la verità è proprio il contrario. V’ha un socialismo buono, che, mentre accresce i beni materiali, li vuole scala ai beni dello spirito e della vita avvenire; e questo è il socialismo, lasciatemi dire la parola, cattolico. E’ un socialismo che cominciato con la Chiesa è andato crescendo di grado in grado, e, ai nostri giorni, ha per ordine di Divina Provvidenza, uno sviluppo e un’efficacia che non ebbe mai. Questo sviluppo, in gran parte derivato dalle industrie e dai commerci smisuratamente cresciuti tra i popoli civili, è voluto, promosso e accelerato dalla Chiesa Cattolica. Due memorabili Encicliche di Papa Leone XIII indicarono la via che esso deve percorrere, il papa presente Pio X, così particolarmente amante degli umili, lo ama di gran cuore e ne promuove il progresso. E ciò non toglie che egli d’altra parte si opponga severamente a coloro i quali, avvedendosi o no del male che fanno, si sforzano di rendere il socialismo una peste dell’umana società. Con la lusinga di rendere tutti gli uomini ricchi dei beni materiali tentano di spogliarli di beni infinitamente maggiori, che sono gli spirituali. Questo è il socialismo cattivo, che noi figliuoli della Chiesa combatteremo sempre. Allorchè si dimezza l’uomo e si pensa solo all’uomo carnale, non solo si fa guerra a Cristo e alla Chiesa, ma anche alla dignità umana, alla vera grandezza delle nazioni e ai molti beni della civiltà cristiana. Con tutti i mirabilissimi progressi materiali della nostra civiltà, noi, mi accora il dirlo, se eccitiamo i rei desideri, le passioni, le voluttà e tutto ciò che nell’uomo v’ha di basso e di corrotto; se estinguiamo in noi la luce degli alti ideali dataci da Dio per rassomigliarci a lui, andremo incontro a una nuova barbarie di un genere diverso da quella dei selvaggi, ma pur barbarie. E poi non vi accorgete voi che le più sterminate ricchezze non bastano a rendere l’uomo felice? Io vorrei chiedere a ciascuno di voi qui presenti se forse non preferisca ad un miliardo il non soffrire una malattia, poniamo grave e dolorosissima, oppure la perdita di una persona assai cara. La esperienza propria avrebbe dovuto pur convincervi che Iddio ci ha dati molti beni nel mondo e ce ne ha promessi pure molti altri assai più nobili e più desiderabili di quelli che i socialisti promettono a tutti.

Egregi uditori, le cose che io vi ho detto fin qui, come vi accennai sin dal principio, non sono nè uno studio
profondo, nè una piena apologia di quel Cattolicismo, che ci consolò nei primi anni, e spero ci conforterà nell’ultima ora della vita. Ciò che ho cercato di farvi conoscere è appena un raggio di quella luce di fede, di carità e di speranza, che ho desiderato ispiratrici di tutta la mia vita, e che ora vorrei, per quanto è possibile, infondere nei vostri animi. Dura e spesso angosciosa è la vita dell’uomo, difficili e tenebrosi i tempi che viviamo, malsana e talvolta assolutamente infetta, per quanto riguarda religione morale, è l’aria che respiriamo intorno: oscurata o smarrita la fede, all’uomo non restano che lo scetticismo nella mente, e l’orgoglio con le passioni brutali nel cuore. I vari dolori della vita, nonchè scemare si accrescono, manca la speranza, grande consolatrice della vita; l’avvenire o non si vede o si vede tenebroso, l’anima si sente oppressa da un buio fitto di confusioni, di discordie e di contradizioni, che contrastano col gran desiderio che noi abbiamo del vero, del bello, e del bene eterno.

E i miei fratelli, che son tutti gli uomini, spero che non mi vorranno male se io bramo vivamente di elevarli in alto e di alimentare in essi la speranza di beni infinitamente maggiori che non son quelli della vita presente.

UNA FESTA NUZIALE

Una modesta funzione compievasi la mattina del 3 corrente nella Chiesetta dell’Istituto dei Ciechi. L’avvocato Lino Barbetta, consigliere dell’Istituto, univasi in matrimonio, colla signora Paletti Clelia, ved. Sacchi. L’anno scorso moriva alla vedova Sacchi il maggiore di tre figli, e l’assistenza assidua e affettuosa fatta al figlio infermo, fece nascere sul labbro dei fratelli superstiti, il desiderio di vedere al posto del padre defunto, chi per l’affetto tanto lo richiamava, l’avv. Barbetta. Il loro voto fu esaudito. Queste premesse erano necessarie per comprendere il senso del discorso che in occasione delle nozze tenne agli Sposi il Rettore dell’Istiuto.

La musica dei Ciechi accompagnò la funzione. Il presidente dell’Istituto cav. ing. Antonio Spasciani fungeva da padrino allo sposo.

Ecco il breve discorso.

«Vi sono dei momenti solenni nella vita. Tale è per voi questo momento, o Sposi. Voi siete qui per pronunciare l’irrevocabile sì, che unirà per sempre in una sol vita la vostra vita. L’avete pronunciato poc’anzi dinnanzi ai rappresentanti dell’autorità civile: venite a ripeterlo sotto l’egida di un’altra autorità, che vi parve più santa perchè rappresentata da chi riveste per voi il carattere dell’amicizia. E un po’ di spirito di famiglia che si insinua e presiede al formarsi della vostra famiglia.

«Una nuova condizione oggi si forma per voi. La vostra vita, libera e isolata nei rapporti fra di voi, ora si riunisce per formare una vita sola. Nuovi diritti, nuovi doveri. Io mi elevo e abbraccio questi diritti e questi doveri in una parola sola, che nasce dalla natura stessa del vincolo che venite a contrarre. La famiglia