Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 30 - 23 luglio 1910.pdf/7

Da Wikisource.

IL BUON CUORE 239


Noi rifuggiamo da ogni elogio convenzionale o adulatorio, e seguiamo l’impulso spontaneo del nostro cuore quando segnaliamo le virtù di vivi o di defunti. Ora siamo qui coll’animo commosso, col pensiero rivolto a quel caro giovane, il quale, come albero coltivato in buon terreno, cresciuto in ambiente sano, sorvegliato, difeso dai parassiti, era giunto nel pieno rigoglio della vita e aveva già dato fiori e frutti a’ suoi ottimi coltivatori.

L’ing. Giuseppe Carones percorse tutti gli studî con distinzione, facendosi sempre ammirare per la sua diligenza, per la sua attività, per la sua osservanza dell’alto esempio paterno.

Virtuoso in tutto il significato della parola, rifuggiva da ciò che avrebbe potuto offuscare minimamente la sua vita illibata, e si era votato al lavoro, lieto di sollevare l’amato padre, che era stato suo maestro e ispiratore.

Ora ecco che, ad un tratto, l’albero è schiantato dalla bufera; ora ecco che l’edificio, che formava l’orgoglio di santi genitori, è crollato in un attimo, annientando tanti rosei progetti, trasformando le più dolci speranze in profonda amarezza!

Dobbiamo ancor una volta convenire che le famiglie migliori sian quelle maggiormente provate in questa valle di lacrime?

Oh, se la Fede non sostenesse chi rimane a piangere i cari perduti!

A. M. C.



Un tifo maligno troncava mercoledì notte, nella sua casa in Milano, dopo soli dodici giorni di malattia, una floridissima esistenza: l’ingegnere Giuseppe Carones, il primogenito dell’egregio ing. Giovanni e della signora Luisa Gavazzi. Non aveva ancora 28 anni. Giovane di straordinarie qualità di mente, associate ad una fibra vigorosa di volontà, era divenuto il collaboratore infaticato nello studio paterno; l’indole remissiva e il cuore affettuoso gli avevano conciliato la predilezione dei fratelli e dei parenti tutti; la lealtà del carattere e la profonda religiosità, costantemente sentita e praticata senza ostentazioni e senza timidezze, ne facevano l’esemplare di cittadino e di cristiano.

Presago quasi della catastrofe e dell’impossibilità di prepararsi degnamente sotto gli accessi del male, volle fin dai primissimi giorni disporvi la sua coscienza; e la chiamata di Dio venne, nè egli la paventò; offrì rassegnato il suo olocausto, additando il cielo e invitando i suoi Cari a «seguirlo in Alto».

Il lutto è piombato sulla desolata famiglia proprio mentre gustava le gioie dí aver sottratto alla morte un altro dei numerosi fratelli. Sono prove terribili, che Iddio chiede solo alle anime forti; e certo tutti i suoi Cari sapranno nel ricordo dei suoi esempi e nelle convinzioni religiose, che formano il loro più bel patrimonio, attingere la difficile rassegnazione.

Sac. C. Orsenigo.



SILVIA DUBINI CORA.

Creatura gentile, intelligente, educata con elevatezza d’intendimenti, fu la gioja della famiglia paterna e divenne poi anche la gioja d’altra famiglia ben degna di possederla.

Sposa felice ed esemplare, divenne madre di due bambini e due bambine, e nel suo orgoglio materno, nelle sue affettuose cure, non fu mai dimentica dei bambini poveri e sventurati, che anzi ella soccorreva con amorevole sollecitudine. Nella sua attività, Ella dedicava gran parte del tempo alla famiglia, ma la sua intelligenza voleva una certa espansione, sicchè la signora Silvia, armonizzando in sè le più belle doti e i tesori di una cultura sana e severa, riusciva, col suo tratto squisito e colla sua franchezza addolcita da simpatica espressione, a far del bene anche all’infuori della cerchia famigliare.

Bastava parlarle una volta per riportarne una impressione favorevole e duratura.

Or si pensi allo schianto del marito che perde in giovane età una moglie simile e rimane con quattro bambini quasi inconsapevoli della grande sciagura!

E fu assai lunga e penosa la preparazione al sacrificio! Un male insidioso, ribelle ad ogni cura, parve concedere qualche tregua per ripiombar poi nell’angoscia i cuori aperti alla speranza. E Lei sempre paziente, sempre amorosa, e anche nell’intravveduto pericolo, santamente rassegnata a lasciare il suo diletto Giuseppe, i suoi cari piccini, il venerato genitore. Nella visione straziante dell’abbandono, Ella innalzava fervide preci e, con indicibile espressione, raccomandando i suoi cari che sarebbero rimasti senza di Lei, manifestava il desiderio di essere sepolta a Lasnigo, accanto alla salma della madre venerata.

Ed ora, dall’alto, nella potenza sovrumana del sacrificio compiuto, nella forza perenne dell’amore idealizzato, come veglierà, vicino alla madre, l’anima bella su chi rimane nello strazio, nella dolcezza, nella santità del suo ricordo!

A. M. C.




ROSA MAGISTRETTI.

Un’altra buona e distinta famiglia dolorosamente colpita! Un morbo crudele, che già chiese troppe vittime, il tifo, rapiva Rosa Magistretti alle dolcezze della vita famigliare ed alle soddisfazioni del bene, lasciando nel pianto l’egregio consorte rag. Gaetano e quattro giovani figli.

La buona signora Rosa era zia amatissima del distinto arpista Magistretti, del quale parliamo in questo periodico.

A chi soffre nello strazio del cuore, sia conforto la visione di una tenerezza che non si è spenta, ma semplicemente tramutata; che dall’alto veglia su chi la ricorda e la invoca!

M. M. C.