Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 33 - 13 agosto 1910.pdf/5

Da Wikisource.

IL BUON CUORE 261


formularono questa diagnosi: S. M. essere travagliata da bronchite e da dissenteria d’indole pessima, che potea terminare all’improvviso con una perforazione degli intestini; aver perduto gran quantità di sangue nel viaggio ed essere caduta in uno stato di marasma; l’edema alle gambe essere un cattivissimo indizio; S. M. esser in pericolo non imminente ma forse non lontano. Cattivi pronostici fece pure il dottor Kessler, medico del Re di Portogallo, ritenendo Carlo Alberto etico in ultimo grado. Il giorno 30 giugno giunse a Villa d’Entra Quintas il dott. Alessandro Riberi, già medico particolare del Re.


La serenità di Carlo Alberto.

Nonostante la febbre persistente e la molestia della tosse, tale da provocare il vomito e tutto scuotere quel povero corpo, il Re s’alzava secondo l’usato ogni mattina tra le sette e le otto; le forze lo abbandonavano, ma la volontà non cedeva. E i medici dicevano ch’ei si reggeva in piedi per prodigio. «Egli del rimanente scrive il Cibrario — vedevasi sereno e tranquillo secondo suo costume. Non un lagno usciva dalla sua bocca, non un atto d’impazienza appariva in mezzo ai suoi tormenti. Solo, quando non si poteano dissimulare, ed era interrogato se soffrisse molto, rispondeva che sì, soggiungendo: Conviene aver pazienza, Dio vuol così». «Per altra parte — scrive sempre il Cibrario egli pregiava così poco la vita, e tenevasi costantemente tanto apparecchiato a comparire innanzi al Tribunale del Giudice eterno, che non si preoccupava gran fatto del pensiero della morte. Non solo lungo il giorno, ma sovente nel silenzio della notte scendeva dal letto, e recavasi nella cappella a pregare; e per quanto si studiasse di farlo celatamente, non ingannava il vigile occhio del fido cameriere, che a sua insaputa vegliava gran parte della notte nella camera vicina».


Conversando.

Il conte Cibrario, ch’era sovente ammesso alle udienze di S. M., ci riferisce i temi dei discorsi di Carlo Alberto. Il Re «si compiaceva nel ripetere che la forza e l’avvenire d’Italia stanno nella monarchia di Savoia, purchè quelli che hanno guastato sì alta impresa, e che già suscitano imbarazzi a Vittorio, comprendano una volta il loro errore. Poter il Governo esser libero a un tempo e forte; ma non poter neppure esser libero se non è forte; perchè, invece di protegger gli altri, non basterà neppure a protegger sè stesso contro la preponderanza straniera, e contro le fazioni interne, le quali, se non sono represse, restringono in sè solo la libertà che debbe essere di tutti».

Avendogli un giorno il conte Cibrario confessato che non aveva potuto a meno d’applaudire alla risoluzione da lui presa d’abdicare e d’allontanarsi dall’Italia, perchè questo atto aveva dissipato ogni ombra d’oscurità che ancor rimanesse su qualche punto della sua giovinezza ed impediva che quella setta medesima, che gli aveva attraversato l’alta impresa, gli imputasse a tradimento la sorte infausta delle armi; Carlo Alberto, con vivacità maggiore del solito e battendo colla mano sul
tavolino, lo interruppe dicendo: «Ha ragione, ha ragione. Non rammenta come sono stato trattato non dal popolo ma da quella setta a Milano

Ma, avendo il conte Cibrario osservato, che il nome di S. M. sarebbe perpetuamente agli italiani un conforto, una speranza ed una bandiera, il Re sorrise al gentile pensiero.

Altre volte, riandando le tristi condizioni d’Italia, riprecipitata nella discordia e nei disordini, Carlo Alberto abbassava dolorosamente il capo sul petto e sospirava sull’avvenire della patria comune. «Ma poco stante, quasi commosso da profetico senso, battea la mano sul tavolo, e pronunciava questa cara parola: Speriamo!».

Carlo Alberto vagheggiava di scrivere anche le memorie dei tempi che corsero dopo la prima campagna; ma ne fu impedito dalla febbricetta che di continuo lo travagliava, causandogli spesso il tremolo della mano.

Di moltissimo conforto gli riuscivano le lettere dei parenti più prossimi e di molte persone a lui devote, e, in una lettera del 16 maggio al conte Castagnetto, scriveva: «l’intérêt que me montrent encore plusieurs personnes me touche extremement».

Attendeva l’arrivo del Duca di Genova, e ne manifestava la propria compiacenza col governatore civile, ma poi soggiunse: «Ma no, il Duca di Genova non può, non deve venire. Egli ha un comando nell’esercito, e la pace non è fatta. Ma conoscerete il Principe di Carignano, che non è rattenuto da questa considerazione. E’ un principe di rare qualità, e che m’è molto caro». Pure, racconta il Cibrario, volle la sorte che l’arrivo di S. A. R. fosse, per una combinazione d’infauste congiunture, indiretta occasione di grande dolore. Erano le cinque pomeridiane del giorno 30 di giugno, quando il telegrafo, ch’era sul campanile della chiesa dos clerigos, avverti che presentavasi alla foce del Douro un vapore da guerra sardo. S. M. ch’era molto afflitta, perchè il giorno prima aveva letto nei giornali francesi pessime nuove della salute di Re Vittorio, all’annunzio dell’arrivo di quel legno, imaginando chissà quali tristi notizie, si sentì rimescolare tutto il sangue, fu invaso da un risentimento febbrile maggiore dell’usato e in tale spavento rimase per ben tre ore; che tante ci vollero perchè la marea fosse cresciuta al punto da permettere l’ingresso al Monzambano, recante il Principe di Carignano, il dott. Riberi ed il cameriere di S. M. Bertolino.


Le memorie del dott. Riberi.

Il dott. A. Riberi raccolse religiosamente i pensieri e le conversazioni di Carlo Alberto, consegnandone la memoria ad uno scritto tuttora inedito, posseduto dagli eredi. Il prof. Costanzo Rinaudo, che se n’è, per gentile concessione, potuto valere in una sua conferenza, ne trascrisse alcuni passi così interessanti da farci desiderare la pubblicazione dell’intiero scritto, siccome quello che può immensamente aiutarci a penetrare nell’animo dell’infelice Sovrano.

Ecco un passo, per esempio, in cui Carlo Alberto dà ragione del suo volontario esilio:

«Da lungo tempo io ho fatto giustizia delle gran-