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IL BUON CUORE 291


cittadino d’Atene e di Roma, mostrandosi politico come Tucidide, eloquente come Livio, profondo e scolpito come Tacito, inspirato come un padre della Chiesa; che tutte si spinse innanzi le generazioni, facendole camminare sui grandi disegni della Provvidenza finchè si videro dissolversi e cadere nel sepolcro; che, seguendo egli stesso il convoglio funebre di tutta la famiglia di Adamo, fece sentire novello Geremia angosciose lamentazioni attraverso la polvere ed i rottami del genere umano; che in uno fu oratore sacro magniloquente, del dogma cattolico propugnatora invincibile, zelante e virtuoso PontefiCe della Chiesa di Meaux; questi fu Iacopo-Benigno Bossuet!

Del genio di Bossuet così discorre l’Audisio: “Bossuet! ecco l’eroe, il gigante che discorre in pochi passi smisurate distanze; pochi accenti bastano a lui per aprire un orizzonte immenso di luce; sviluppi la fede e la morale, celebri l’interno imeneo dei santi o conduca il lutto della patria nella morte dei principi, egli non tocca la terra, ma slanciasi e rapisce colla signoria del genio nelle supreme ragioni dell’intelligenza. Non precauzioni, non raffinatezze, non pretensioni oratorie, ma rettitudine di sentimento, gagliarda franchezza ed ardimenti di una buona fede; non personali trionfi, ma il trionfo del vero; non dilettare mollemente, ma sorprendere, soggiogare, opprimere le udienze; non far dire — egli parla bene — ma egli ha ragione, questo è giusto, è onesto: dire tutto ciò che vuole, e come vuole: e col sentimento e colla forza che vuole: ecco l’uomo, il quale fondava l’impero assoluto dell’eloquenza al cospetto di un monarca il più assoluto dell’universo: alla cui maestà se parve inchinare talvolta più del dovere la maestà apostolica, rialzavasi tosto per dirle col tremendo accento di un profeta:

«Dopo tante vittorie vi resta un nemico a vincere; voi medesimo, sire, voi medesimo»

III.


Fénelon.

Ma sull’orizzonte, allora così lucido della Francia, un altro astro brillava forse capace di stringere e quasi rifondere in un solo i prodigiosi talenti di quei tre sommi oratori: quell’astro era Fénelon, nato nel 1651. Sull’anno diciannovesimo, la sua eloquenza già stimandosi un portento, egli, che, a tenera pietà univa consumata prudenza, per cessare dal suo cuore il veleno delle precoci laudi sì contagiose ai novelli predicatori, nascondevasi nel seminario di S. Sulpizio a crescere e portare a maturità i suoi talenti. E, tenendo per vero (al che vorrei ponessero mente i cultori come i giudici della sacra eloquenza), niuno essere mai stato sommo predicatore che alle naturali facoltà non aggiungesse il ministero pratico delle anime, dove imparansi le segrete vie, per le quali il Signore le chiama a santità; il giovane Fénelon prese un tal orrore di quanti arrogavansi di slancio l’arduo ministero della parola, come noi avremmo di chi, senza aver militato mai nelle più basse file, ardisse guidare da duce le falangi a battaglia. Quindi non istimò cosa indegna del suo genio, colla profondità de’ suoi studi far del paro camminare le funzioni d’umile coadiutore nella parrocchia di S. Sulpizio in Parigi, ministrando sagramenti, confortando moribondi, ed il pane della parola spezzando a poverelli. Questo fu il noviziato di quella grande anima; e tale esser dovrebbe di ogni altro; ed il non farlo, fu ai nostri tempi cagione onde i predicatori pascano di vento sè e gli uditori. Furono sì illustri i suoi primi successi che mossero l’Arcivescovo di Parigi a confidargli i novelli cattolici, e Luigi XIV la celebre missione di Saintonge. E nella grazia del re, senza saperlo egli medesimo, tra per li meriti delle sue fatiche, e per la fama della sua dottrina, e per l’opera che pubblicava
in quel tempo: Sopra l’educazione delle giovani, era entrato sì avanti che il monarca davagli ad educare i suoi tre reali nipoti, il duca di Borgogna, d’Aniou e di Berry. Tutto a tutti, egli era semplice co’ suoi alunni, sublime con Bossuet, letteratissimo con Racine e Boileau, cogli stessi cortigiani schietto, disinvolto, ammirato.

Le Opere lasciate da Fénelon sono eminentemente istruttive. Si possono citare fra le altre: I dialoghi sull’Eloquenza, una Lettera sulla rettorica e sulla poesia, un’infinità di Opere e lettere spirituali, il Telemaco, per tacere delle filosofiche e delle letterarie. In esse tutto splende un intelletto consumato nelle vie interiori nella cognizione dello spirito e del cuore dell’uomo. Trionfa in tutti questi lavori l’eloquenza dell’anima, che è la vera eloquenza.

IV.


Giovanni La-Bruyère.

V’hanno talora uomini sommi, della cui vita poco o nulla si conosce, ed uno di questi è il celebre scrittore e moralista del secolo decimottavo, Giovanni La-Bruyère, nato a Dourdan nel 1639. Il titolo immortale alla gloria di La-Bruyère all’attenzione ed al rispetto della posterità, è stato il suo libro dei Caratteri, nel quale a fatto prova di una finezza e di una giustezza veramente ammirabile, insieme ad una rara perfezione di stile. Vi sono in questo libro dei capitoli che penetrano il più intimo secreto dell’anima; più si studiano, più si ammirano per la concisione, la forma, la varietà, il brio che tiene desto il lettore. Questo libro venne sempre considerato come atto a formare il gusto della gioventù, essendo scritto con sobrietà e giudizio, e sempre nei limiti della pura verità. La-Bruyère era legato d’amicizia con Bossuet e Boileau, e morì l’anno 1696.

Dinnanzi a questi quattro genii, ancor oggi si inchina la Francia. In tutto quello che si fa di presente per rendere credente quella nazione, sono essi citati come grandi autorità, per la ragione che furono uomini di scienza e di fede, nè mai separarono la dottrina dalla Religione. Fu solo più tardi, che la miscredenza di Voltaire, e di Rousseau doveva comparire sul cielo della Francia. Infelice quel secolo che si lasciò trascinare per la via segnata da questi due corifei. E felici quei tardi nipoti che non vogliono aver niente di comune con essi.

Al collaudo dei Ristauri

della "Madonnina di Alzate„

(8 SETTEMBRE).

Veni, vidi, dixi; giacchè, andai ai festeggiamenti anche come oratore d’occasione (modestia a parte), e non solo come divoto e curioso. Ma non senza una punta di inquietitudine, di dubbio, circa il risultato dei ristauri, e circa il modo di destreggiarmi alla men peggio in caso d’un insuccesso di lavoro.

Invece, fin dalla sera di mercoledì, quando assistetti alla chiusura della Novena, piamente distratto dal bisogno di guardare, distratto dalle successive impressioni, potei però calmare subito le ansie dello spirito. La prima sommaria visione dei lavori ebbe la più tranquillante risposta. Ma fu il dì della Festa che, alla luce naturale del giorno, potei vedere meglio. La battaglia era vinta; non capivo più in me dalla gioia, quasi che