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IL BUON CUORE 349


riusciva ad accontentarlo nell’imbastitura del dramma. Una prova evidente e interessante di questo fatto, l’abbiamo nella seguente lettera di Verdi:

«Milano, 22 maggio 1844.


«Carissimo Piave (a Venezia).

«Ho già mandato a Roma la Selva e spero che l'approveranno. Nonostante, tu, per ora, puoi sospendere il lavoro, perchè io ho da fare abbastanza. Pensaci bene e procura di proseguire come hai cominciato. Tutto finora va egregiamente, meno una piccola cosa: osservo che non si parla finora del delitto per cui Foscari vien condannato: parrai che bisogna accennarlo.

«Nella cavatina del tenore vi sono due cose che non van bene: la prima è che, finita la cavatina, Jacopo resta ancora in scena, e questo è sempre male per l’effetto; seconda è che non c’è distacco di pensiero dall’adagio a quello della cabaletta. Queste son cose che andran bene in poesia, ma in musica malissimo. Fa pure, dopo l’adagio, un piccolissimo dialogo tra il a fante e Jacopo, poi un ufficiale che dica: — Guidate a il prigioniero; poscia una cabaletta, ma che sia di forna, perchè scriviamo per Roma; d’altronde quel carattere di Foscari, ti ripeto, bisogna renderlo più energico. La cavatina della donna va benissimo. Credo che ora farai un brevissimo recitativo, poi un a solo del Doge ed un gran duetto. Sia assai breve questo duetto, perchè è finale. Mettiti in gran sentimento e fa della bella poesia. Nel secondo atto, fa la romanza di Jacopo, e non dimenticare il duetto con Marina, poi il gran terzetto; indi il corpo e il finale. Nel terz’atto fa pure come siamo intesi e cerca d’innea starvi il canto del gondoliere frammisto ad un coro di popolo. Non si potrebbe combinare che questo succedesse verso sera, e fare così anche un tramonto di sole che è così bello?

«Accetta pure di scrivere per Pacini; ma cerca di non fare il Lorenzino, perchè questo lo faremo insieme un’altra volta. Se però non potessi a meno, fa pure anche il Lorenzino e fa il tuo interesse.

«Sono stato scritturato da.... per scrivere a Venezia nel carnevale 45-46, ecc., ecc....

«tuo aff.mo

«G. Verdi.»


«I due Foscari andarono in scena all’Argentina di Roma la sera del 9 novembre 1844, e, nella città eterna, come in altre d’Italia, ebbero un successo pieno e veramente popolare».

AMOR VERO


RACCONTO


(Continuazione, vedi numero 43)


— Rodolfo, diss’ella finalmente, coraggio! Tu lo vedi, Dio mi chiama a sè; convien rassegnarsi.

— Ah! non è possibile! mormorava Rodolfo. Clotilde, per pietà, lasciami una speranza.

— Sento pur troppo che la vita se ne va, ripigliò la fanciulla. Verrai a vedermi un po’ tutti i giorni, n’è vero, Rodolfo? Le tue visite mi faranno bene. Siedi.

Rodolfo s’assise. Clotilde voleva prepararlo alla rassegnazione, Rodolfo riluttava. Sopravvenne il medico. Il giovine si ritirò, ma non volle allontanarsi, che troppo

gli premeva udire il vero dalle labbra di colui, al cui sapere era commessa una sì cara vita. Era costui un vecchio burbero e franco, nemico dei riguardi e dei mezzi termini. Tostochè lo vide uscire, Rodolfo corse a lui supplichevole, e n’ebbe, che il male della fanciulla era di data più antica di quel che pareva; che il suo era un temperamento guasto, un organismo logoro, sul quale i rimedi non potevano ornai più; ch’ella poteva soccombere l’indomani, ovvero trascinarsi fino all’autunno, ma che quanto al guarire non era più da discorrerne. Rodolfo, udita in silenzio la sua sentenza, riprese il cammino di casa sua col capo basso e nel cuore la morte. Salì a stento le scale, e gittatosi abbandonatamente sulla prima seggiola che si trovò fra’ piedi, si lasciò in preda ai più tetri pensieri. Stringevasi colle palme la fronte che pareva volergli scoppiare; sospirava, urlava, piangeva, usciva tratto tratto in grida di furor disperato. Assorto nella piena del suo tempestoso dolore, non udì nè il bussare che fu fatto all’uscio socchiuso, nè una voce di donna che disse:

— Signor Rodolfo, buon dì, oggi è il giorno dei poveri. E l’uscio s’aprì, e un volto gentile, sorridente, sereno, si mostrò adombrato dalle bianche ali del cappello delle figlie della carità.

— Entri, sorella, disse Rodolfo quando l’ebbe raffigurata; entri ma chiuda la porta, non vo’ vedere nessuno.

La suora entrò e gli si fece dappresso.

Taluni, che spesso s’inchieggono maravigliati, donde mai la carità vada a scovare i tesori che profonde nel seno dell’indigenza, dovrebbero domandarne quelle mirabili ancelle di Cristo, che s’incaricano di raccogliere le bricciole cadute dalle mense de’ ricchi. Stanno, le pie mendicanti, quasi in agguato, spiando il momento per cogliere il signor scioperato, la dama distratta, gli umiliati dalla sventura, gli egoisti, i fortunati. E a una loro parola le mani di questi indifferenti lasciano cader l’obolo, ond’esse poi vestono gli orfanelli, cibano gli affamati.

Così adoperava Suor Marta. Allorchè trovavasi come soverchiata dalla inondante miseria, si faceva mendica in nome di Gesù, e gli ufficiali di marina che la conoscevano e la rispettavano, non erano dei meno generosi fra suoi benefattori: — Pregherò il Signore che ve la renda — diceva loro con quella sua voce soave; e anche a’ meno religiosi quel pio ringraziare tornava gradito. Rodolfo era una delle sue migliori pratiche, com’ella le soleva chiamare; non passava mese senza che ella gli tendesse la mano e l’uffiziale la rallegrasse d’una generosa limosina.

Quel dì, trovatolo così triste ed abbattuto, la sorridente cercatrice fe’ subito luogo alla pietosa figlia della carità: gli si fe’ presso, e con accento di tutta dolcezza gli disse:

— Lei soffre, figliuol mio!

Questa parola era piena di tanta materna pietà, che Rodolfo, il quale aveva gran bisogno di sfogo, si lasciò andare a narrarle la sventura che stava per piombargli addosso e dissipare per sempre i bei sogni della sua vita avvenire.

Suor Marta stette ad ascoltarlo con grande attenzione, in atto di somma pietà.