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362 IL BUON CUORE


quale enorme sproporzione tra l’esiguo numero dei dilettanti di un dibattimento e i milioni di lettori della cronaca!

Due atleti della stampa hanno combattuto in questi giorni sull’argomento spinoso, Ettore Janni, dal punto di vista del Corriere della Sera, e l’arguto Tournebroche dalla Perseveranza, come paladino di chi vorrebbe porre un argine allo scandaloso dilagamento.

Ci piace riportare integralmente le osservazioni da Tournebroche pubblicate in forma di lettera aperta a Ettore Janni.

«Colla tua lettera aperta al comm. Calabrese tu gli hai insegnato molte verità che il valente uomo evidentemente non sospettava neppure. E, inspirato dal tuo solito acuto buon senso, nella chiusa l’hai avvertito dell’opportunità di andare adagio nel proporre rimedi legislativi ai mali morali, più o meno seri, che affliggono il nostro consorzio civile. Nel campo della legislazione sociale educativa non bisogna strafare: è questo il tuo ammonimento eccellente, al quale sottoscrivo a due mani.

«Ma, a diradare le tenebre che avvolgono quel povero Procuratore Generale, tu hai creduto necessaria l’apologia del giornale moderno di gran tiratura: di quello che «per la fatalità della sua natura» è forzatamente cronacaiolo, perchè «fonda il suo carattere sull’equilibrio numerico di coloro che lo comprano». A mio debole parere tu, volendo stradimostrare, hai passato il segno, come un membro qualunque delle innumerevoli Commissioni pro-minorenni.

«Secondo te, coloro che si permettono di criticare un giornale siffatto sono portinai o filosofastri. «I portinai ci trovano infatti troppa filosofia e i filosofastri troppi fatticelli correnti». Sei sicuro d’aver ragione? Sei sicuro che l’Umanità si divida appunto in tre classi: portinai, filosofastri e ammiratori esterrefatti del... del giornale fatale? Ad ogni modo, se è vero quel che dici tu, io m’inscrivo senz’altro nell’ordine dei filosofastri; e forse mi ci troverò in buona e numerosa compagnia.

«So bene che in Italia nessun giornale s’è plasmato finora sul tipo del Matin, che ogni giorno reca in prima pagina un’antologia di delitti «narrati al popolo» in forma suggestiva, corredata di inchieste particolari e adorna di ritratti d’apaches, di souteneurs e di cadaveri di vecchie assassinate. Ma la tendenza c’è e si va accentuando. E’ proprio una necessità fatale? E’ vero che il palato del pubblico sia così grossolano da non poter gustare altro cibo? E se è tale, la colpa è tutta sua? L’avidità di cronache scandalose o raccapriccianti sarebbe dunque una passione naturale come la libidine e la gelosia? L’abbiamo ereditata dagli aborigeni abitatori d’Italia, o non ci fu per avventura inoculata di recente dal giornalismo tiraturista a oltranza? Nel quale ultimo caso, che valore conserverebbe la tua apologia?

«Un uomo pieno d’ingegno e vuoto di ubbie sentimentali, fondò, meno di quarant’anni fa, un giornale quotidiano, lo fece prosperare e lo lasciò, morendo, fortissimo. Soleva dire: «al pubblico bisogna imbandire del fieno»; ma nel suo giornale non ammise mai certe stramaglie. Non credeva necessario d’arrivare fin là. O

che il mondo è radicalmente trasformato, dalla sua morte in poi? Vent’anni fa un giornale poteva vivere e diventar grande senza vendersi a nessuno: ed ora, come dici tu, se non fa «il semplice commercio coi lettori» dovrà, pena la vita, impegolarsi in peggiori «commerci d’altro genere».

«Amico mio, tu disprezzi il pubblico oltre ogni limite ragionevole. Non è vero che l’Italia incretinisca di giorno in giorno e che i suoi gusti si facciano sempre più volgari. Si cammina adagio, ma si cammina. Ed io non vedo perchè sulla via del progresso, il giornalismo, invece di mettersi alla testa delle moltitudini, debba fatalmente seguire alla coda. La gente non ci vuole pedagoghi indigesti, ma neppure ci pretenderebbe servitori umilissimi delle sue tendenze più basse. Eppure noi giornalisti arriveremmo senz’altro a quest’ultima «bella posizione sociale» se applicassimo fino alle estreme conseguenze logiche la tua teoria del a semplice commercio col pubblico» e «sull’equilibrio numerico di coloro che comprano il giornale».

«Su questa teoria tu assicuri che si può fondare una morale solidissima. Poichè la parola morale, negli odierni libri di filosofia, ha i significati più varî e più discordi, non posso dire che tu abbia torto. Forse l’hai presa nel senso di costumanza; forse in quello di azienda...Chissà? Ad ogni modo tu, da quel galantuomo che sei non hai l’aria di gabellare questa «morale nuova» per un sublime ideale realizzato: anzi fai intendere che l’adotti perchè nel nostro ambiente è la meno falsa possibile. Ti viene il sospetto che sia cinica; ma poi crolli le spalle e ti rassegni. Non vuoi dar di cozzo nelle Fata.

«Ma le Fata son proprio cosi dure come tu te le raffiguri? Vediamo un po’. Nei paesi in cui le masse sono meno arretrate delle nostre, il giornalismo, a norma della tua teoria, dovrebbe ormai aver assunto un colore uniforme giallo sbiadito. Dovrebbe essere quasi tutto cronaca obbiettiva e quasi niente opinioni recise, perchè queste ultime non possono piacere a chiunque e rischiano di rompere «l’equilibrio numerico dei compratori». In Francia non potrebbe vivere se non il tipo Matin e Petit Journal; in Inghilterra il tipo Daily Mirror o peggio. Eppure non è così. Giornali come il Temps, i Debats, l’Echo de Paris e lo stesso Figaro, fatti all’antica perchè intendono di guidare la opinione pubblica e non di seguirla, vivono dignitosamente, senza intingersi nella mala pece di certi contratti. Spacciano meno copie dei giornali gialli, ma hanno un’influenza e un prestigio infinitamente superiore. Le esigenze dei tempi nuovi non sono riuscite a sopprimerli e nemmeno a scalzarli. Altri giornali del loro stampo sono morti: è vero. Ma erano quelli fatti male. E quale gazzetta è meno gialla del Times? E mi vorrai dire che il Times viva di male accattate sovvenzioni?

«La fatale tendenza al giornale cronacaiolo e obbiettivamente incolore non mi sembra dunque una conseguenza necessaria del nostro sviluppo civile. E, se non è necessaria, non conviene rassegnarvisi. Tu per il primo, tu che proclami la tua rassegnazione, quando hai la penna in mano l’adoperi come intendo io e non come l’intende la redazione del Chicago Advertiser. Tu scrivi