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374 IL BUON CUORE


l’opportunità di dare alle figliole un’educazione che le prepari alla vita, che mostri loro in luce austera e grande e viva i doveri che le attendono, se un giorno saran spose, madri.... esse si sdegnano, si scandalizzano, come davanti a una profanazione d’innocenza! Mio Dio! E poi lasciano che certe rivelazioni si compiano per mezzo di un foglio che non narra che il male e che quello studia, carezza, circonda con arte che fa terrore!

E queste stesse brave signore conducono le figliole, giovanette appena, a spettacoli inadatti; e lascian sui tavolini loro romanzi scabrosi, e si permettono, in loro presenza, atti e parole.... Signore, Signore.... a quante cose riflessi in quella rapida corsa!

Che necessità di sorgere, di lavorare, di esaurirci anche, per elevare ed indennizzare l’opera di ognuno che abbia missione educatrice, per salvare i nostri giovani e le nostre figliole, per farce delle forze di bene, dei padri degni e delle madri consapevoli e venerande. {{A destra|margine=1em|Luisa.

LE PIANTE FEROCI


Sembra, a prima vista, che nelle armonie della natura, l’anima delle piante idealizzate dal poeta Erasmo Darwin non abbia che delle virtù. In verità, grazie a Maeterlinck, nessuno mette più in dubbio la loro intelligenza, ma la loro innocenza è più discutibile. Se vi sono delle piante dolci, tenere, benefiche, ve ne sono al contrario altre di una ferocia uguale a quella dei cannibali. Come gli uccelli rapaci del regno mitologico, esse fanno la guerra ai viventi, e quando se ne sono impadroniti li divorano.

Cosi almeno afferma G. Roux nella Revue, il quale cita parecchi esempi per dimostrare la ferocia di alcune piante. Tra gli altri ricorda un fatto segnalato dall’eminente botanico tedesco, il professor Jopf, dell’Università di Munster. Dei nemoctod, vermi lunghi da due a tre centimetri, agili come le anguille e come queste viventi nell’acqua, si trovavano alla portata di certe piante fungose, filiformi: tutto ad un tratto, queste si allungarono formando coi loro fili dei nodi scorsoi: uno degli ascaridi vi rimase preso, e il nodo si richiuse immediatamente, strangolando il malcapitato, che servi da pasto al suo nemico. Le frullanie, certe piante che crescono sulla scorza degli alberi, prendono nelle valve aperte, simili a sacchi, gli animaletti i quali si arrischiano vicino a loro e li uccidono con una vera crudeltà. Le piante insettivore sono del resto numerose. Altri esempi cita l’articolista, che sarebbe troppo l’ungo accennare. Egli soggiunge che queste stragi delle piante sono spesso accompagnate da raffinamenti i quali lascerebbero credere ad una premeditazione; un esempio, alcune piante della Florida, le quali mentre all’aspetto ispirano fiducia, e attirano verso di sè l’insetto, celano una specie d’imbuto, una vera trappola per quelli che capitano fra di loro. Vi è qualche cosa di orribile — dice Dennett — nell’artificio adoperato dalle piante per catturare l’insetto. L’imbuto non è che una caverna

dove l’assassino attira la vittima; esso l’invita a un festino, macchina l’insidia e la trascina nell’abisso. Queste piccole cavità non sono le sole insidie tese dalle piante feroci, le quali dispongono anche di fili rozzi lunghi e flessibili che servono non solo all’attacco, ma anche alla difesa. Questi peli in alcune piante sembran a prima vista inutili, ma quando si prende la pianta tenendola dritta e si mette una goccia d’acqua nella foglia si vede il liquido scendere lungo lo stelo e si riconosce che i peli hanno una funzione determinata: essi costituiscono dei canali: in certe piante questi peli sono vischiosi e l’insetto che vi incappa vi rimane attacccato e tenta inutilmente di sottrarsi alla sua sorte.

Alle piante feroci si potrebbero aggiungere le parassite le quali, meno colpevoli, vivono a spese d’altri vegetali: ma in questo caso il parassitismo non ha nulla di crudele. Fate un giro in campagna. Ecco la primarola, con i suoi fiori d’un bel turchino striato di bianco. Essa involge nella pianura i suoi grappoli d’oro pallido: Bernardino de Saint Pierre l’adorava; Shakespeare la paragona ad una giovane che si strugge nell’attesa dello sposo; Béranger l’officia come un simbolo di tenerezza; Beaconsfield ne fece l’emblema del pattriottismo. Ecco la violetta dal profumo soave che imbalsama la foresta e apre, come dice Giorgio Sand, il suo calice azzurro sull’erba parlante il linguaggio della modestia. Ecco altre ed altre piante, dall’aspetto gentile, timido, pudico. Non vi lasciate ingannare: sono tutte ipocrite che recitano la commedia della innocenza: sono delle parassite, le quali si pascono delle foglie che cadono, e alcune non s’incomodano nemmeno per acciuffare un insetto che si prenda troppa confidenza. È vero che parecchie di queste parassite rendono ai loro ospiti servizi reciproci di nutrimento: sono delle mutualiste, come ha dimostrato Van Beneder; e della mutualità non si deve dir male.

LA GRIDA

(SCHERZO).


Siccome adora il Musulman la Caba
ne la sua fe’ superstiziosa e cieca,
o come il pitagorico la faba
o i libri il topolin di biblioteca,


o la regina Salomon di Saba,
la cui sapienza tutto il mondo acceca,
o come i Farisei il lor Barabba,
o il pittore la sua pinacoteca,


tal di Pastonchi adorerò la «grida»
che dal paese di Logamagoga
sparge sua fama infino al monte Ida.


Sublime voce, che l’antiqua abroga
e l’avvelenerà finché l’uccida,
come di farmacista empiastro e droga.

Roma, dicembre 1901.

Francesco Macry Correale.


NB. — Per la proposta fatta dal Pastonchi di sostituire la parola «grida» all’antica «réclame».