Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 31 - 29 luglio 1911.pdf/7

Da Wikisource.

IL BUON CUORE 247


posa, che si rizza a me dinnanzi appena io riprenda la ragione. Eccolo, eccolo là, padre mio, esso ride con una gioia feroce, mi scopre il suo petto insanguinato, egli mi grida: assassino! assassino!

Il domenicano portò precipitosamente la mano alla bocca dello sconosciuto:

— Silenzio! fratel mio; un tal luogo non conviene a tali parole. Se vi sentite in forze, venite, seguitemi: il nostro Convento non è lontano da qui; io potrò sentirvi e consolarvi al tribunale della penitenza. Là voi non avrete a temere che orecchio indiscreto sorprenda la vostra confessione: là voi non vi indirizzerete ad un uomo, ma allo Spirito Santo che scende dal Cielo per inspirare il sacerdote rivestito del carattere sacro di Confessore.

Lo sconosciuto si levò lentamente e come una macchina che obbedisce alla volontà del suo inventore. Dopo essersi avvolto in un mantello datogli dal taverniere e pagato dal monaco, poichè gli spettatori di poco prima aveano avuto premura di sbarazzare in strada della borsa, della giubba e del mantello colui a spese del quale essi si sollazzavano, egli segui il suo protettore. Entrambi si diressero alla volta del Convento dei Domenicani.

(Continua).

(Trad. di L. Meregalli).

All’Ospedale Vittorio Emanuele III, a Carate Brianza, spirò dopo lunghi patimenti un giovinetto la cui virtù è un esempio. Nato all’estero da padre italiano e da madre inglese, colpito in giovanissima età da male insidioso che ne minò l’esistenza, non potè continuare gli studi, pei quali sentiva grande inclinazione. Tornato in patria, dovette presto lasciare il Collegio ove si distingueva e dalla famiglia, passò in varie case di cura, ma nè scienza illuminata, nè affetti vivissimi riescirono a ridargli la salute.

Il povero giovinetto si chiamava

TITO CALDERINI.

A tratteggiarne la fine, delicata fisionomia fisica ci vorrebbe una tavolozza dalle tinte più miti, dal roseo più pallido delle guancie al celeste degli occhi limpidi e soavi, al biondo tenue dei capelli d’oro: a ricordare la personcina morale, la vita del caro giovinetto, la serena inconsapevolezza, l’esemplare rassegnazione del lungo patire, ci vorrebbe la stessa sua parola vivace e edificante, la parola del quindicenne forte come un martire, sereno come un angelo.

Si andava a trovarlo da lunghi mesi in una camera d’Ospedale che il suo fresco corpicino, sprofondato a volte tra i guanciali, pareva render quasi più linda; che bei libri dei quali la sua viva intelligenia era avida, che mille trastulli prodigatagli da mani amiche, fabbricati spesso dalle sue stesse, affilate dal male ma operose sempre parevano trasformare nella gaja stanzetta d’un bimbo felice.

Luce, fiori, uccellini, aria erano il suo sogno: si andava a trovarlo col proposito di portargli, col deside-
rio di sapergli portare la parola buona che lo rallegrasse, lo confortasse, e la parola buona, il conforto vero veniva da lui, agli altri, al suo babbo specialmente che dava al suo Titino tutti i momenti che il lavoro (che per lui specialmente avrebbe voluto rendere ancor più intenso) gli lasciava libero.

Si entrava nella cameretta d’Ospedale, quasi domestica con viva ansia e se ne usciva più buoni.

Quanta pazienza lo stare immobile, spesso giacere a letto, vivere fra continue privazioni, in un’età nella quale gli altri ragazzi saltano e giocano!

Quanta infantile lepidezza: «Ah! un’altra volta non scelgo più una malattia così nojosa che non mi lascia mangiar dolci!»

Ma insieme quanta profondità di sacrificio: «Eh, penso a chi sta peggio di me» e sorrideva, sorrideva!

Quanta profondità di sacrificio fors’anche nell’aprir la gabbia all’uccellino malinconico che l’aveva divertito, ma al quale era lieto di poter ridar, lui, la libertà, non senza forse un’ombra d’invidia!

Come s’intuiva che quando una sofferenza più acuta, una speranza delusa gli troncava ad un tratto un discorso pieno d’allegria, elevava istintivamente il suo patire chiedendo a Dio una grazia, facendo quasi un patto con lui e semplicemente tradiva il suo segreto colloquio, senza la minima ostentazione, dando quindi vera edificazione a chi l’ascoltava: «Sì, io non posso mangiar dolci, ho spesso la febbre, ma quanta gente cattiva c’è al mondo: prego per loro».

Pensava sempre agli altri; ai suoi fratellini, colla gioia di saperli sani, alla sua mamma col desiderio di raggiungerla un giorno «più in alto», alla famiglia colla pietosa astuzia di farsi credere meno malato, alle persone buone con riconoscenza, ai cattivi colla fiducia di vederli tutti buoni!

Come s’interessava, con fine amicizia agli altri malati, vicini e lontani, conosciuti e ignoti!

Come parlava con fede semplice e salda — l’alta fonte ove attingeva l’eccezionale, mirabile pazienza! — dell’al di là!

No, caro Titino, non hai potuto dalla tua cameretta uscir fuori, all’aria libera, come volevi «per coglier tanti, tanti fiori di prato e farne un bel mazzo per l’altare del Signore», ma sei salito a lui recandogli nelle tue mani pure il più bel mazzo, fragrante di tue virtù.

No, non andrai più segnando e sognando sulla carta geografica il viaggio nella calda Africa ove avevi vissuto, bambino felice, e ove speravi di ritrovar la salute; ma hai compiuto un altro viaggio, hai raggiunto un’altra meta!

Lassù troveranno riposo eterno il tuo eletto spirito, premio i tuoi meriti e continuerai a far del bene ai tuoi cari che ti piangono in terra.

M. C.



Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.