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108 IL BUON CUORE


Il loro amore è per Napoli di cui essi, artisti d’una sensibilità squisita, intendono tutta la vita e tutta la poesia, e di Napoli diletta una continua nostalgia li punge anche in mezzo agli onori che l’Inghilterra prodiga loro costantemente per conquistarne lo spirito come già ne conquistava l’opera.

E forse questo lavoro lento, assiduo... lusinghevole di conquista, sarebbe giunto al suo termine se i due artisti non fossero napoletani. Perchè il napoletano rimane tale anche quando abbia trascorso metà della sua vita in paese straniero e lo diventa di più proprio quando tutto tende ad allontanarlo dal suo luminoso paese. È come una protesta che si determina in lui e che gli fa, in mezzo ad estranei, accentuare i coloriti della sua gente e di più al suo paese lo avvicina quanto maggiormente tendano gli altri ad allontanarvelo.

Così mentre la loro casa di Londra, in una delle più aristocratiche avenues della metropoli, è un cantuccio di Napoli trasportato o meglio faticosamente e minuziosamente ricostruito all’ombra di Westminster, i loro disegni sullo Sphere e i loro quadri esposti nelle più importanti gallerie londinesi rievocano nei concetti, nei tipi, nei colori l’Italia che essi amano e Napoli che mise nella loro anima il calore e la luminosità dei suoi incantevoli meriggi.

È trascorso poco più di un mese da quando Edoardo Matania, che ha trascorso la sua maturità operosa a illustrare le pagine più belle del nostro Risorgimento, disegnò per lo Sphere un allegoria che impresse un fremito di gioia e di fervore ad ogni cuore italiano. In essa l’Italia brandiva la spada dell’antica Roma per la riconquista del suolo africano e il concetto di alto sentimento patriottico era svolto con una grande genialità di dettagli e con una vivacità di tecnica assolutamente giovanile, sì che a vederlo era difficile immaginare che lo avesse pensato ed eseguito un uomo che da parecchi anni ha superato i sessanta. Ma Edoardo Matania, tutto bianco nei capelli e nella piccola barba a punta, ha un cuore che non invecchia mai e mentre egli celebrava nel piccolo quadro, che racchiudeva venti secoli di speranze, la rinnovata grandezza della sua patria lontana, il figliuolo, Fortunino, navigava verso le Indie per celebrare con l’arte italiana il trionfo del Monarca inglese sui popoli dell’Oriente asserviti al suo imperio.

Al ritorno da questo lunghissimo viaggio compiuto parte sul mare, parte sul dorso di elefanti. Fortunino ha voluto rivedere anche per breve ora la città che egli ama ed alla quale deve la fiamma dell’arte che tiene accesa nel petto. E noi abbiamo trascorso un giorno assieme, — poichè ci lega l’affetto della puerizia vissuta da presso — rievocando e sognando come ai bei tempi della nostra adolescenza, mescolando i ricordi del nostro paese alle visioni dell’Oriente, confondendo in un quadro unico le impressioni nuove con i tratti sbiaditi e sempre percettibili delle nostre tentazioni lontane.

Fortunino Matania parla come dipinge, impegnando una fantasia che non si affievolisce mai, colorendo con le parole, chiedendo, al più spontaneo e fresco dialetto
napoletano le imagini concettose, disegnando col gesto che non ha riposo. Egli mi ha descritto col suo linguaggio frastagliato, di cui ogni parola somiglia una pennellata insuscettibile di pentimenti, le sue corse attraverso le pianure indiane, le sue soste in vecchie moschee crollanti, assediate da turbe di sciacalli che neppure i fuochi accesi da un fedele servo indigeno valevano ad allontanare, la grande città angusta per i suoi abitanti, fetida di aromi bruciati agli Dei, più popolata da scimmie e da avvoltoi, che da creature umane, sotto un cielo turchino, limpido, luminoso — mi diceva — come quello di Napoli.

Egli che conosce tutta l’Europa, che ha percorso parte dell’America settentrionale e che tornava appena da un lungo soggiorno in Asia, elevava spesso Napoli a termine di paragone più per una compiacenza, lo credo, che per rendere meglio accessibile a me le sue descrizioni. Sentendolo parlare mentre insieme seguivamo la via tortuosa che dalla collina del Vomero pare voglia fermarsi al mare, senza giungervi mai, io avevo l’impressione netta, decisa che egli aveva attraversato le Indie inglesi recando nel cuore, in segreto, come un prezioso amuleto, la visione di Napoli che si offriva in quel momento al nostro sguardo, nitida per le pioggie recenti. E di questa mia impressione, verace solamente in parte, io mi resi conto più tardi, quando Fortunino giunse a descrivermi la cerimonia solenne della incoronazione di re Giorgio.

Presso alla città di Delhi era stata costruita una nuova città, tutta tende, per ospitarvi circa duecentomila fra sudditi inglesi accorsi da ogni parte dell’India, dell’Europa, dell’Africa ad assistere alla solenne funzione.

Più lontano ancora di molti chilometri, in mezzo ad una pianura sterminata, una di quelle radure che chi conosce solo l’Europa non puo immaginare, sorgeva un enorme anfiteatro del raggio di parecchi chilometri, in mezzo al quale si levava verso il cielo, ad un altezza quasi fantastica, il trono reale: due sedie dorate e incastonate di gemme preziose che rilucevano ai raggi di un sole accecante.

Al momento della cerimonia il vastissimo anfiteatro conteneva oltre 300,000 persone; una marea di piccoli uomini che vederla dal trono pareva una densa colonia di formiche agitata per l’angustia dei confini impostile. Vi erano lords, consoli, rajahs, soldati delle colonie, umili indiani miseramente coperti, tutti raccolti senza eccessiva distinzione di caste, in una grande confusione delle più strane foggie di vestire, intorno al Re e alla Regina seduti sul loro trono, al culmine del gigantesco castello che li avvicinava più al cielo che agli uomini, come due idoli irraggiungibili.

Ad un tratto, al momento in cui la corona preziosa, fatta tutta di gemme strappate ai tesori dell’arte e della fede braminica, veniva posata sul capo biondo del Conquistatore, le bande musicali, raccolte ai piedi del trono, intonavano un inno d’una solennità materiata di luce e di poesia a celebrare l’avvenimento inobliabile.

— E sai tu che cosa hanno suonato, in un magnifico unisono, centinaia di stromenti che rilucevano al sole? — mi ha chiesto Fortunino Matania, con un po’