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116 IL BUON CUORE


San Bonaventura poeta


Una figura pensosa e tuttavia soave nella dignità e solennità del suo atteggiamento, la veste cardinalizia e il cappello fiammante in testa, Raffaello dipinse, tra le moltissime, con la squisita gentilezza e genialità dell’arte sua, in una sala del Vaticano — la figura del Serafico Bonaventura di Bagnorea. Con S. Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, Gregorio Magno, Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo, Innocenzo papa e Tommaso d’Aquino è anch’egli nella folta schiera di dottori e scolastici che, sotto la luce di gloria avvolgente in atto la Trinità, si aggruppano intorno al Sacramento ch’è il termine della loro attenzione devota. Coronato di alloro è accanto ad essi anche Dante. Ed a lui nessuno osò contendere finora il diritto di sedere nella filosofica e teologica famiglia cristiana di cui tutta la sintesi vigorosa si avvivò del folgore immenso del suo verso, nell’opera cui pose mano e cielo e terra.

La meravigliosa concezione dell’Urbinate, più che una disputa — come si credette a lungo — sull’ineffabile mistero, è forse un simbolo della teologia — la scienza per eccellenza nella quale si esercitarono sempre le menti di tutti i tempi: ma sia quella che si voglia la sua significazione intima, S. Bonaventura è altresì nell’affresco per ben altre qualità che non per quelle soltanto della sua coltura magistrale, e delle sue profonde attitudini dottrinali: egli è anche l’artista e il poeta della teologia; difatti è tra i pochi — o forse l’unico addirittura — che l’ardua scienza penetrò d’un soffio di vita così potente, e d’un sentimento così intenso da permetterle spesso il valore quasi di un’opera d’arte.

Probabilmente, questo nuovo titolo di gloria sarà sfuggito alla mente del divino pittore e del grandissimo amico — l’Ariosto — che secondo alcuni, l’avrebbe giovato di consigli e di suggerimenti nella scelta delle figure. Ma non sorprende. Nel celebre figlio di S. Francesco i più videro sempre l’illustre commentatore delle Sentenze, e non insieme il fervido cantore di quella disciplina ch’è «lode di Dio vera» non ostante una storia molto diffusa sulle sue innegabili tendenze poetiche: la storia curiosa d’un inno al Sacramento da lui scritto per commississione d’Urbano IV, e poi subito rifiutato, appena quello di S. Tommaso che aveva tentato lo stesso argomento gli era parso superiore al suo. Ad essa accennò pure, anni addietro, Alinda Bonacci-Brunamonti, che a proposito dei mistici fervori suscitati nel trecento dal miracolo di Bolsena, per cui si lanciarono agili e luminose al cielo le guglie del duomo di Orvieto, e si composero inni eucaristici, non era dispiaciuto a Bonaventura di Bagnorea — ella diceva — di esser vinto nella lirica prova dal teologo domenicano. Si tratta — a quanto pare — di una vera e propria leggenda, non rispondente forse al carattere umile del gran Santo, e formatasi via via senza l’autorità dei grandi storici minoriti.

Ad ogni modo, il suo nome di poeta non ha mai goduto di una vera e grande popolarità, neppure presso
la gente colta. Il filosofo e l’asceta adombrarono l’artista, anche nei tempi di minori intensità teologiche e scolastiche. Generalmente fu ricordata l’erudizione sua varia, la profondità del sapere attestata negli immensi commentari al libro di Pier Lombardo, che lo celebrarono come uno dei più noti maestri italiani della Sorbona, e la forza, la penetrazione dell’intelletto ragionatore che gli consentirono il titolo di Platone del Cristianesimo. Anche Dante lo collocò nel Paradiso, in una seconda ghirlanda luminosa di dottori, come a continuarvi con Tommaso d’Aquino, nell’elogio di S. Domenico, l’ufficio d’insegnante tenuto a Parigi, nel tempo del massimo splendore per la sua università. A lui mancò la sorte di altri confratelli nell’arte, ai quali bene spesso l’uso della liturgia procurò il vantaggio d’una larga, invidiabile e forse non mai sperata diffusione d’inni e ritmi la cui popolarità sarebbe stata invece discutibile o scarsa.

S. Tommaso legò il nome al Tantum Ergo, il beato da Celano al Dies irae e Jacopone allo Stabat, ma nessun lavoro suo, eccettone qualcuno introdotto nei messali francescani, ebbe mai la consacrazione del rito — neppure il Laudismus, non mandato forse a mente che da qualche figlio nell’Ordine meditante, nel devoto silenzio, sulle pagine ascetiche di lui, bagnate di lacrime. Solo gli Inni de Passione, entrati nelle devozioni pubbliche e private e tradotti in alcuni dialetti, restarono in uso fino al secolo XIX nella catedrale di Halberstadt in Sassonia. E, con altri pochi, furono anche citati dagli antichi biografi, per motivi, evidentemente, di indole storica, anzichè per intimo riconoscimento del valore poetico.

Una relativa importanza cominciò a darsi ai suoi versi nel cinquecento — proprio cioè nel momento, non ancora superato del tutto, degli olimpici disprezzi e fastidi delle produzioni, peggio se poetiche, che non fossero apparse splendenti di eleganza e di orpello, nelle vacuità lusingatrici della forma.

Gli è che durava il delirio umanistico naturalmente indulgente verso tutto ciò che fosse latino, e Leonardo Bruni d’Arezzo aveva già esaltata la Legenda major; gli era parsa, nel suo genere, insuperabile.

Cosi dunque per la prima volta comparvero nell’edizione d’Argentina, nel 494, una diecina dei suoi ritmi, e tutti, anche i dubbi o spurii, furono stampati nella magnifica raccolta vaticana delle sue opere, quasi un secolo dopo, e, ricordati da un notevole storico francescano della prima metà del 500 — Mariano Fiorentino. Lo stesso uditore di Rota, nel discorso per la canonizzazione del dottore Serafico recitato innanzi a Sisto IV, non trascurò il suo capolavoro — S. Philomena — come neppure lo trascurò in una raccolta di opuscoli spirituali — dov’è riportato per intero — il gesuita Rossi. Un accenno ai titoli delle sue poesie apparve pure nella storia degli scrittori ecclesiastici del Bellarmino, mentre il testo loro fu dato prima dal De Soto, poi dal Wadding, nella poderosa opera sugli scrittori dell’Ordine.

Anche il Balinghem fece posto a molte di esse nel suo Parnaso Mariano, e fu in ciò seguito anche dal